«Sono pochi gli eventi storici che, come il monachesimo cristiano, hanno avuto una forza così straordinaria e nello stesso tempo così soffocante, che abbiano conosciuto una spiritualità così alta e una decadenza così profonda, pochi, dunque, che hanno sperimentato tanto amore e tanto odio.» A scrivere così è Franz Overbeck in Le origini del monachesimo, una conferenza tenuta a Jena nel 1867. L’avevo «sistemato» nella casella «amico di Nietzsche», ma una nota in un altro libro mi ha additato l’opera di questo «teologo senza fede», nato a San Pietroburgo nel 1837 (da madre francese cattolica e padre tedesco luterano) e morto a Basilea nel 1905.
Interessantissima, proprio per il suo essere un tentativo di analisi storica e «razionale» e tuttavia scevra di intenti polemici dichiarati, cosa che non fu percepita dai contemporanei teologi che attaccarono, o ignorarono, Overbeck, e ancor più i suoi lavori successivi. D’altra parte, espressa in poche e limpide pagine, la tesi centrale è forte: nato dallo sforzo di preservare l’autenticità del cristianesimo delle origini, il monachesimo ha condotto fuori dal mondo il mito cristiano centrale, quello escatologico, estraniandolo dalla storia; si è poi avvitato nella contraddizione fino a perdere completamente la sua vitalità, a mano a mano che la rivolta degli anacoreti si trasformava nell’obbedienza dei cenobiti.
Gli spunti di estremo interesse sono molti, a partire dall’identificazione del legame originario tra monachesimo (anacoretismo) e martirio. Il monachesimo, infatti, «è un’autoaffermazione del cristianesimo in un momento storico in cui altrimenti rischia di essere divorato», e «poteva pensare di offrire un prodotto sostitutivo per un evento la cui possibile scomparsa causava, già nel III secolo, profonda preoccupazione». Con la cristianizzazione, puramente formale, dello Stato, con le conversioni di massa, i cristiani eredi delle prime comunità dovevano trovare una «nuova frontiera», la Chiesa stessa si preoccupava «di cercare il luogo dove… salvare ciò che ancora rimaneva dell’attitudine spirituale che le era propria e che desiderava mantenere». E quel luogo fu il deserto, dove vennero poste le basi e fatte tutte le esperienze di ciò che sarà per secoli il monachesimo.
Non un deserto qualsiasi, tra l’altro, bensì quello dell’Egitto, «il paese delle meraviglie profane», «la più ricca fucina di orpelli, accumulati qui da ogni dove, con i quali il paganesimo in declino si agghindava» (un armamentario periodicamente rinato e arrivato trionfalmente sino a noi). Qui erano le caratteristiche stesse del luogo a prestarsi particolarmente: «da nessun’altra parte, almeno nell’impero romano di allora, esisteva una natura che, favorendo con il suo clima una rinuncia totale, accostando in modo singolare, in uno spazio relativamente angusto, panorami di luoghi desolati e lussureggiante fertilità, fosse uno specchio migliore dei contrasti dai quali è scaturito lo spirito entusiastico del monachesimo».
E fu così che i cristiani, i più convinti tra loro, per inseguire Cristo e prepararsi al suo secondo avvento, abbandonarono il mondo. Forse, suggerisce Overbeck, per non farvi più ritorno.
(la seconda parte è qui)
Franz Overbeck, Le origini del monachesimo, Edizioni Medusa 2006.
Sul tema cristiani antichi vs mondo mi hai fatto veniere in mente una citazione di Ilario di Poitiers :”Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; (ecc ecc) ”
Per quel che ho letto e mi han raccontato, trovo il monachesimo cenobita interessante, un tentativo di preservare cosa fu. Non tutto luccicante, spesso con risvolti che oggi ci suonano da brivido ma affascinante per quel nucleo di rivolta nei confronti di cosa era la normalizzazione
Annarella, direi che hai colto precisamente sia con la citazione di Ilario sia con il riferimento al “nucleo di rivolta” contro la normalizzazione.