Archivi del mese: marzo 2012

Le cose di lassù (Teofane il Recluso)

Ogni tanto do un’occhiata a Oriente, disordinatamente. Tale è la mia ignoranza della spiritualità ortodossa che è come se andassi in gita in un luogo di cui non conosco nemmeno la lingua, senza aspettative, magari mi resta attaccato qualcosa. E qualcosa dell’antologia di scritti di Teofane il Recluso, Lo spirito e il cuore, mi è rimasto attaccato, a partire dal nome del suo autore. Il quale nome venne a Grigorij Govorov (Černavsk, 1815 – Vjšen, 1894) per il periodo che, dopo lunghi anni di insegnamento e attività pastorale, trascorse in reclusione nella sua cella del monastero di Vjšen: circa dodici anni, dal 1872 («Vorrei chiudere volentieri tutte le finestre e le porte, per non vedere e sentire alcunché di quanto succede fuori»).

Autore molto prolifico, tra i principali artefici del cosiddetto «ritorno ai Padri», Teofane viene spesso riassunto nella formula della «spiritualità del cuore», una pratica di purificazione dei sentimenti, di sobrietà dei pensieri, di discernimento e orientamento degli spiriti e di abbandono alla preghiera, che mira a una «disposizione stabile», a un’intima integrità.

Tra i troppi spunti che ho intravisto mi hanno colpito alcuni estratti dallo sterminato epistolario di Teofane, che, anche in reclusione, rispose sempre alle richieste di consiglio spirituale. Ecco, ad esempio, la risposta che Teofane dà quando proprio a lui qualcuno chiede se sia bene o no entrare in monastero: «Non è bene cercare di risolvere la questione tentando di indovinare, se nel monastero se fuori del monastero; la forza non è in questa circostanza». E aggiunge: «Quando il monastero è nel cuore, non importa se vi sia o meno l’istituzione monastica. Ecco il monastero nel cuore: Dio e l’anima». I monasteri sono necessari, ma non tutti vi sono chiamati, né tutti hanno voglia di entrarvi, e non bisogna dimenticare che «non sono stati stabiliti dal Salvatore». «Il monaco è colui la cui vita interiore è disposta in modo tale che esiste solo Dio con lui, e lui si perde in Dio.» La vita di famiglia, la vita nelle città, può rappresentare un ostacolo per questa intimità, e così alcuni scelgono di ritirarsi dal mondo, ma altri no. Tutti concordano che esista un talento per la scienza, o per un’arte, perché non accettare, chiede Teofane, che esista un «talento» per Dio? «Il monachesimo non proviene dall’esterno», è anzitutto un evento interiore.

A questo punto è scattata inevitabile l’associazione con un’altra lettura recente, un piccolo volume di Francesco Comandini, che passa in rassegna alcune esperienze monastiche contemporanee extraistituzionali e che si spinge addirittura a individuare un «archetipo monastico» della cosiddetta natura umana. «Attualmente il carisma monastico sembra espandersi al di fuori delle mura dei monasteri e influenza la vita spirituale di molte persone. Uomini e donne, cristiani e non cristiani, stanno scoprendo in se stessi una dimensione monastico-contemplativa che si esprime spesso con modalità nuove e originali».

Teofane in proposito, citando Paolo, è molto chiaro: «Pensate alle cose di lassù… In questo consiste il monachesimo. Non è monachesimo la tunica nera, la berretta, e neppure la vita in monastero. Anche se tutto questo cambierà, il monachesimo rimarrà finché esisterà l’uomo-cristiano».

Teofane il Recluso, Lo spirito e il cuore. Pagine scelte, a cura di T. Špidlík S.I., Paoline 2003; Francesco Comandini, Come monaci nel mondo. Piccola guida al monachesimo interiore, Il leone verde 2002.

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«Le celle del nostro minimo letargo» (Reperti, 12)

Tra le ultimissime poesie di Mario Luzi ci sono cinque testi che compongono un piccolo «ciclo benedettino», sia per titolazione esplicita (Benedettina 1, Benedettina 2, ecc.), sia soprattutto per temi. Anzi, sostanzialmente per il tema, quello del silenzio. Quel silenzio, monastico o universale, di fronte al quale il poeta si sente sollecitato a definire se stesso, che zitto non sta e non può stare.

Un silenzio raggiunto, che «riduce a nulla e a luce / ogni pensiero della specie», e un silenzio comunque interrotto «dal funereo stillicidio / nella pozza / immensa / del tuo vaso, / del nero /siero / della deiezione nostra»; un silenzio in cui tutto si spegne e un silenzio dal cui fondo si spera di «risorgere / candore e canto».

Il poeta, massima incarnazione di un’individualità parlante, prova di necessità un certo disagio al cospetto di un silenzio collettivo e a sua volta incarnato. Certo, c’è la preghiera, e il suggerimento non tanto velato di un legame tra essa e la poesia. Ma forse c’è, nei versi di Luzi, soprattutto l’idea che quel silenzio ci sembri tale soltanto perché non siamo in grado di udire, se così si può dire, certe «frequenze», quelle dell’eterno, sia esso Dio o mondo o vicenda dell’essere.

Notte alta, verso mattutino.
Era tra le muraglie
i corridoi, le celle
della povera abbazia
silenzio, quello?
aveva
quella vocalità
l’eterno?
e lui l’aveva
vertiginosamente appresa?

O era invece il cantico del mondo
così pieno
di totalità, così profondo –
non bastava
l’udito ad ascoltarlo,
l’uomo a seguirne il ritmo.

Mario Luzi, Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime, a cura di S. Verdino, Garzanti 2009, pp. 126-31. (Il titolo del post è un verso di Luzi tratto dal terzo testo del ciclo.)

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Per giardini e frutteti (Dice il monaco, IV)

Dice Eugippio, intorno al 530, di come «sia illecito prendere qualche cibo e bevanda fuori dalla comune mensa benedetta».

Prima e dopo la refezione stabilita dal regolamento comune, si osservi con la somma cura che fuori della mensa nessuno presuma concedere affatto qualche cibo alla sua bocca; se alcuni camminassero per i giardini e i frutteti, quando i frutti pendono qua e là dolcemente dai rami degli alberi, e non solo sbattono contro i petti dei passanti, ma talvolta, caduti per terra, si offrono per essere calpestati dai piedi, pronti, anche solo a vederli, per essere raccolti e così soddisfare la voglia del desiderio, anche allora, quando l’opportunità o l’abbondanza suggerirebbero di soddisfare la gola persino ai più ragguardevoli e astinenti, questi considerino di commettere un sacrilegio, non solo nel gustare alcuno di essi, ma anche nel toccarlo con la mano, tranne il caso in cui lo si metta per la refezione comune e sia offerto pubblicamente, con il permesso dell’economo, come un servizio fatto verso i fratelli.

Eugippio, Regola, 38, a cura di B. Degórski e L. Mirri, Città Nuova 2005, pp. 158-59.

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Il vessillo del monaco

Potrebbe sembrare un discorso d’occasione, composto di formule collaudate, ma non lo è. L’omelia pronunciata dall’arcivescovo di Milano, il cardinale Montini, il 21 marzo 1960, poco più di tre anni prima di diventare Paolo VI, presso il monastero delle benedettine dell’Adorazione perpetua del SS. Sacramento, è un testo di grande densità e partecipazione, tutto centrato sul «proprio» del monachesimo e in cui ogni parola è pesata con attenzione (a questo proposito aggiungerò qualche corsivo).

È la festa di san Benedetto, e Benedetto dà il la, «desiderando piacere soltanto a Dio» (da Gregorio Magno). Per far ciò, per seguire Gesù, il monaco lascia tutto, nega l’uomo. Infatti «nascono questi uomini molto, molto aderenti al loro nido, lì dove nascono, cioè alla terra, sono così vincolati a questa così detta madre terra che vi aderiscono istintivamente e purtroppo totalmente». È pur vero, concede l’arcivescovo, che bisogna rispondere alle necessità imposte da questo vincolo, per lo meno «finché siamo nel tempo»; è pur vero che «non possiamo volare», ma non per questo non possiamo nemmeno camminare, anzi, dobbiamo riconoscere che nel punto di partenza è già presente una direzione verso la quale andare. E questa direzione è Dio, attraverso la strada tracciata da Cristo, che, sebbene non ne avesse bisogno, l’avrebbe già percorsa per noi. (È interessante notare, tra l’altro, come la stabilità fisica cui si votano i monaci diventi premessa di autentico movimento.)

È una concezione «eroica e drammatica anche, che pone l’uomo in contrapposizione con le cose sue, le sue relazioni umane, in grande, grandissima parte anche con se stesso» e che suscita due forti obiezioni: da una parte c’è la «natura» che ci riporta a terra, che non molla la presa. Ci possiamo sentire liberati, staccati, e invece basta un’inezia per ricadere su di essa, «perché ci si sta così bene a questo mondo che ci si pensa proprio come a una cosa a cui dobbiamo la nostra esistenza, mentre la nostra esistenza vorrebbe ormai essere sospesa soltanto alla ricerca e all’amore di Dio». D’altra parte, e lo stesso Montini la chiama «tentazione» più che «obiezione», da un punto di vista psicologico, le cose non sono necessariamente cattive, anche il mondo è «creatura di Dio» e occorre guardarsi dal chiudersi in un «perimetro di negazione» (una splendida immagine del possibile travisamento del significato del chiostro): perché non si può godere il mondo e rivolgersi ugualmente a Dio? «La cosa è molto bella ed è molto centrata e potrebbe essere studiata con maggiore analisi e con maggior premura di quanto facciamo noi adesso».

Non è la via del monaco, però, che non accede alla contemplazione salendo sulle cose, bensì staccandosi da esse: «La contemplazione esige una grande pausa che vuol dire grande abbandono delle cose che sono il tessuto della vita attiva e della vita esteriore». Senza timore di impoverirsi, anzi, confidando nel bene supremo cui quella via conduce, la pace, il vero «vessillo» del monaco: «Ha trovato la pace chi ha fatto la guerra al mondo e si è invece rivolto completamente a Dio; diventa un dominatore ed equilibratore delle cose, delle vicende, delle impressioni in cui si svolge la vita». Un vessillo squisitamente monastico, ma additabile a tutti. (E sembra qui risuonare anche l’eco semplice di sentimenti moderni, una velata risposta all’alienazione, lenita da «un certo grado di libertà dalle cose».)

Ora, non mi sfugge la velleità insita nel confrontarmi con un tale pensiero, e tuttavia si scelgono i «nemici» migliori per cercare di essere, a propria volta, migliori. Dunque non posso che respingere, con altrettanta compostezza, questa ricetta pratica di trascendenza, non in base a una contrapposizione di «fedi», bensì in forza di un distacco già consumato e immanente, quello di chi non vede (qualcuno direbbe non riesce più o ancora a vedere) segnali di un altro tempo e di un altrove; e in forza, perché no?, di una contemplazione costitutivamente limitata, di individuo tra individui, di nodo di desideri tra flussi di desideri, di vicenda finita tra vicende finite, di cosa tra cose. La pace ottenibile non parrebbe poi così diversa.

Giovanni Battista Montini, Il grande vessillo di San Benedetto, in Paolo VI, L’uomo recuperato a se stesso. Discorsi ai monaci, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2010, pp. 251-257.

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Self-help by Evagrio

«Prego… la tua paternità di insegnarmi in che modo io debba combattere coloro che appartengono alle tenebre e prego insistentemente la tua santità di comporre un trattato chiaro, che mi spieghi tutta la malizia dei demoni, che di propria iniziativa intervengono sulla via del monachesimo, e di volermi inviare questo trattato perché senza fatica anche noi scacciamo via da noi i loro perfidi attacchi.» Così scrive un abba Lucio al grande Evagrio, il quale prontamente risponde (la corrispondenza si è conservata per una «felice circostanza»): avrei preferito di no ma, visto che me lo ordini, ti mando il mio trattato, magari lo correggi e lo completi, anche perché «ti confesso… che non ho finora ancora afferrato nella giusta maniera i pensieri demoniaci».

Il trattato è l’Antirrhetikos (da antírrhesis, «replica»), risale agli anni successivi al 390 ed è noto anche come Contro i pensieri malvagi. Come dice Gabriel Bunge, «è una delle opere più importanti del monaco pontico Evagrio e, con tutta evidenza, una delle più interessanti per dei monaci». Contiene 498 risposte – suddivise in base agli otto «pensieri», i progenitori dei sette peccati capitali – ad altrettante suggestioni demoniache: quando il monaco, soprattutto l’anacoreta, è assalito dalla tentazione, non sempre ha la risposta adatta sotto mano, ecco quindi un «arsenale» di rimedi pronti all’uso. Praticamente, un manuale di self-help.

Precedute da un breve e denso prologo sulla lotta contro i pensieri, tipica dei monaci che hanno abbandonato le cose materiali, consueto ricettacolo dei demoni per gli uomini mondani, le risposte sono citazioni bibliche (Antico e Nuovo Testamento), tra le cui fonti spiccano per frequenza il Deuteronomio, i Salmi, i Proverbi e le Lettere di san Paolo. Inevitabilmente, come suggerisce lo stesso Bunge, in quanto «lettore moderno» sono stato attratto, più che dalle risposte, dalle tentazioni, che consentono un eccezionale colpo d’occhio sulla psicologia, nonché su certi tratti concreti, del monachesimo primitivo.

Scorrendole, ci si imbatte nelle lusinghe della memoria («Contro il pensiero che ci ricorda le delizie di un tempo e ci fa venire in mente i vini dolci e le coppe tenute nelle nostre mani, quando eravamo ai banchetti e ci davamo al bere», I, 30) o negli avvertimenti del buon senso («Contro il pensiero che ci prospetta una brutta malattia per i danni provocati in noi dal digiuno e ci persuade a mangiare qualcosa di cotto», I, 59), in desideri comuni («Contro il demone che nella mia mente mi consiglia di unirmi a una donna e di diventare padre di famiglia e di non rimanere così combattuto dalla fame con pensieri di fornicazione», II, 49) o in comuni reazioni («Contro il pensiero di chi non sopporta il tocco del demone che si precipita tra i fianchi e da lì sotto si muove in essi, provocando l’incendio», II, 63), e ancora in paure generiche («A causa del demone che insinua nei miei pensieri la paura della follia e della perdita della ragione, insieme alla vergogna che ne verrebbe per me», IV, 43) o in scene quotidiane («Contro il pensiero che suscita la nostra ira verso il bestiame che non va avanti dritto per la strada», V, 18), e infine in situazioni passe-partout («Contro i pensieri di ogni sorta che sono generati dalla collera per questioni di vario tipo», V, 50) o specificatamente monastiche («Per l’anima che a causa dell’acedia si carica di pensieri che mandano in frantumi la speranza, facendole vedere che è molto dura la vita monastica e difficilmente un uomo la sopporta», VI, 14). Insomma, finirei per citarle tutte, perché adoro questi elenchi…

Scorrendole velocemente, passano come su uno schermo, con qualche aggiustamento dal IV al XXI secolo, tutti i pensieri di cui sarei portato a vergognarmi, e la schiera dei demoni che li suggerirebbe scompare, lasciando il posto alla cosiddetta natura umana, invidiosa, collerica, avida, vanagloriosa, smodata – un bel cataloghino. Evagrio mi ricorda che in fondo ogni sconfitta la devo a me stesso e ogni vittoria la devo al Signore – c’è un che di tragico nel considerare l’essere umano un campo di battaglia tra forze che lo oltrepassano: miliardi di campi di battaglia affiancati, che si sovrappongono, si toccano, sconfinano l’uno nell’altro, con il sangue del male che scorre dall’uno all’altro… Da parte mia, tenderei a puntare, contando sulle sole forze qui disponibili, allo scadere del tempo, a un dignitoso pareggio.

Evagrio Pontico, Contro i pensieri malvagi. Antirrhetikos, introduzione di G. Bunge, traduzione e note a cura di V. Lazzeri, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2005.

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