«Le celle del nostro minimo letargo» (Reperti, 12)

Tra le ultimissime poesie di Mario Luzi ci sono cinque testi che compongono un piccolo «ciclo benedettino», sia per titolazione esplicita (Benedettina 1, Benedettina 2, ecc.), sia soprattutto per temi. Anzi, sostanzialmente per il tema, quello del silenzio. Quel silenzio, monastico o universale, di fronte al quale il poeta si sente sollecitato a definire se stesso, che zitto non sta e non può stare.

Un silenzio raggiunto, che «riduce a nulla e a luce / ogni pensiero della specie», e un silenzio comunque interrotto «dal funereo stillicidio / nella pozza / immensa / del tuo vaso, / del nero /siero / della deiezione nostra»; un silenzio in cui tutto si spegne e un silenzio dal cui fondo si spera di «risorgere / candore e canto».

Il poeta, massima incarnazione di un’individualità parlante, prova di necessità un certo disagio al cospetto di un silenzio collettivo e a sua volta incarnato. Certo, c’è la preghiera, e il suggerimento non tanto velato di un legame tra essa e la poesia. Ma forse c’è, nei versi di Luzi, soprattutto l’idea che quel silenzio ci sembri tale soltanto perché non siamo in grado di udire, se così si può dire, certe «frequenze», quelle dell’eterno, sia esso Dio o mondo o vicenda dell’essere.

Notte alta, verso mattutino.
Era tra le muraglie
i corridoi, le celle
della povera abbazia
silenzio, quello?
aveva
quella vocalità
l’eterno?
e lui l’aveva
vertiginosamente appresa?

O era invece il cantico del mondo
così pieno
di totalità, così profondo –
non bastava
l’udito ad ascoltarlo,
l’uomo a seguirne il ritmo.

Mario Luzi, Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime, a cura di S. Verdino, Garzanti 2009, pp. 126-31. (Il titolo del post è un verso di Luzi tratto dal terzo testo del ciclo.)

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