Già la vicenda filologica della Regola di Eugippio è interessante, ed è una storia lunga, cominciata con una citazione di Isidoro di Siviglia e conclusasi solo di recente in seguito al lavoro di de Voguë sulle fonti della Regola del Maestro, che ne ha fissato l’attribuzione. È, sostanzialmente, un centone che Eugippio, abate di Lucullano, lascia ai suoi monaci come testamento, e raccoglie un florilegio di estratti da altre opere monastiche: la Regola del Maestro, anzitutto, seguita da Agostino, Basilio, Pacomio, Cassiano e Agostino. Una specie di «compilation», sapientemente assemblata, che occupa «una posizione di rilievo in quanto, con la sua datazione di origine tra il 530 e il 533, oltre che essere forse l’ultima precedente o addirittura contemporanea a quella di Benedetto, che non cita mai, per la sua dimensione si presenta come una delle più lunghe pervenuteci».
Come osservano i curatori dell’edizione italiana, Bazyli Degórski e Luciana Mirri, più che per l’aspetto legislativo, ancora non del tutto formato, l’opera di Eugippio si distingue per il contenuto spirituale e più concretamente per la «concezione di “regola” come specchio della propria santità in itinere»: nei testi raccolti il monaco, anche grazie alla pratica della lettura quotidiana, si specchia, scorgendovi come dovrebbe essere e come sarà; ed è pratica comunitaria, «di gruppo», che rimbalza dalla pergamena alla realtà circostante: il monaco è discepolo della regola che legge/osserva, e dalla quale è a sua volta «osservato», come è discepolo del confratello che osserva/legge e dal quale è a sua volta osservato. Dice Agostino (citato in I, 152): «Affinché, poi, possiate mirarvi in questo libretto come in uno specchio, per non trascurare qualche cosa per dimenticanza, vi sia letto una volta alla settimana». (Non avevo mai considerato, tra l’altro, come il cenobitismo possa essere visto come «antidoto delle conseguenze del primo peccato», quello che fa dire a Caino, in risposta alla richiesta del Signore: «Non lo so [dove sia Abele]. Sono forse il guardiano di mio fratello?» «Nell’economia della redenzione», sottolineano i curatori, «nuovamente il fratello è il guardiano di suo fratello»).
Non vi si legge nulla di originale, quindi, ma vi si ripassano pagine importanti, apprezzando il montaggio e, come mi capita sempre, soffermandosi sulle piccole cose e le curiosità, soprattutto quelle che fanno da contraltare ai grandi temi spirituali, le minuzie che ci ricordano che si tratta pur sempre di vita quotidiana. Al capitolo I, 100 (ripreso da Agostino) ad esempio si legge: «Tenete i vostri abiti in unico posto, sotto uno o due custodi o quanti potrebbero essere sufficienti per sbatterli, affinché non siano corrotti dalle tignole»; oppure al capitolo VII, 1 (tratto da Basilio), parlando ancora di vestiti e calzature: «Se per caso fossero troppo piccoli o grandi rispetto alla misura della propria statura, si deve dirlo, ma con ogni delicatezza e mansuetudine».
Il capitolo XX (dalla Regola del Maestro) chiede: «Da quanti passi il fratello, lasciato il lavoro, dovrebbe accorrere all’oratorio?» E la risposta è precisa: cinquanta (che secondo i curatori equivalgono a 73 m e 95 cm). «Se la distanza dal luogo fosse più grande dei cinquanta passi, non diciamo più che il fratello che lavora deve andare all’oratorio, in modo che i fratelli che accorrono da lontano troppo velocemente e cercano, a gara, di superarsi a vicenda [me li vedo proprio], non corrano senza serietà e con trascuratezza, e affaticati dalla lunga strada entrando tardi all’oratorio, con lo stomaco palpitante dopo la fatica della via, non siano in grado di adempiere alla recita del salmo…» Già, la salmodia, il cuore della giornata di un monaco; ma anche una fatica, magari alle quattro del mattino, svegliati a forza, col freddo… «Inoltre, quando si salmeggia, occorre evitare i colpi di tosse frequenti, o gli sbadigli ripetuti e prolungati, oppure il continuo sputar saliva; o che venga tolto il muco dalle narici» (XXIV, 22, dalla Regola del Maestro).
A volte è sufficiente un avverbio per aprire un piccolo sipario, come nel titolo del capitolo XVI (da Basilio), che chiede «Non è proprio lecito ridere?» Come dire: siamo proprio sicuri, eh? E a volte c’è spazio anche per una battuta, come nel capitolo XXVII (sempre dal Maestro), che riporta la famosa distinzione in quattro categorie dei monaci: cenobiti, anacoreti, sarabaiti e girovaghi. Ah, i sarabaiti, «rammolliti in una natura di piombo», fanno quello che vogliono, senza regola né maestro, «tutto ciò che pensano o decidono lo chiamano santo, e quel che non vogliono lo considerano illecito. E mentre cercano di avere in loro arbitrio cellette, borsette e cosette, non si accorgono di perdere le loro animette».
Eugippio, Regola, a cura di B. Degórski e L. Mirri, Città Nuova 2005.