Ho finalmente colmato una delle mille lacune: Le acque di Siloe, di Thomas Merton, il più famoso trappista del Novecento. Un libro che ne contiene tanti, pur essendo compatto, e che mi ha portato verso molti altri, in una curiosa catena di cui vorrei in futuro dare conto. Un libro che accoglie in sé la storia avventurosa della Trappa, la descrizione, ad uso del mondo «esterno», della vita di un monaco trappista contemporaneo (il libro è del 1949) e delle sue motivazioni, la rivendicazione insistita della natura contemplativa del «carisma» cisterciense, il riassunto delle controversie che portarono alla divisione dell’Ordine, la considerazione non acritica di alcune figure centrali della sua vicenda, la nostalgia per le origini, la celebrazione di quel meccanismo particolare che è una comunità monastica e l’evocazione di quella macchina sociale che è un monastero trappista, e infine l’atmosfera del dopoguerra e dell’inizio della Guerra Fredda (con tanto di risonanze con il fenomeno imminente delle «comuni»).
Insomma, un sacco di roba; e in più tanti nomi, storie, fatti curiosi. È un concentrato di monasticità che dà corpo (oltre 400 pagine nell’edizione che ho letto) in maniera ammirevole a un paradosso centrale di questa forma di vita. Il monaco che ha scritto questo libro, infatti, come migliaia di suoi confratelli, ha scelto la «completa rinuncia, non solo al mondo, alle sue ambizioni e ai suoi numerosi interessi, ma anche ai propri giudizi individuali, ai propri gusti, alla propria volontà». È uno dei tanti che rispondono alla definizione – paradossale, appunto – esposta con nettezza in apertura: «Il monaco è un uomo che rinuncia a tutto per avere tutto. È colui che ha rinunciato al desiderio per avere il più alto adempimento di ogni desiderio. Ha rinunciato alla sua libertà per diventare libero. Va in guerra perché ha trovato un genere di guerra che è pace».
Tuttavia, proprio nella chiarezza dei giudizi, nella scrupolosità della ricostruzione, nella cura della forma, il monaco che ha scritto questo libro afferma implicitamente un’individualità precisa, come a loro modo avranno affermato molti dei suoi confratelli. È un’osservazione, la mia, di certo non un’eccezione, e tantomeno un’accusa, anche perché a differenza ad esempio del fondatore del suo Ordine, Rancé, Merton non ha mai toni graffianti o di disprezzo per il mondo che ha lasciato. Non gli «appartengono». Il suo atteggiamento prevalente si potrebbe riassumere con un «guardate che qui, nel chiostro, è bellissimo».
Pare quasi che ripercorrendo la storia dei trappisti per arrivare alla sua, di Trappa, Merton si sia per così dire lavato dalle asprezze, dai titanismi al contrario (che con discrezione non manca di rilevare), e abbia trovato la sua voce. Quello che voglio dire è che non è una voce anonima, e forse proprio per questo, necessariamente al di fuori del chiostro, la si ascolta volentieri.
Thomas Merton, Le acque di Siloe, traduzione di Bruno Tasso, Garzanti 1992.
Amo molto Merton e ho letto varie cose sue. Più che come “monaco” l’ho sempre visto come “mistico”.
Qualcuno capace di intuizioni spirituali e sociale molto profonde.
Qualcuno profondamente umano.
Grazie per il post
Sì, è l’impressione che ho avuto anch’io (l’umanità). Uno sguardo acuto e disteso, e anche un bel senso dell’umorismo, quando occorre.
Prima o poi abbiamo bisogno tutti di liberarci delle cose materiali in modo da riscoprire chi siamo veramente.