L’annullamento, la volontà di scomparire, di essere dimenticati da tutti è un appello che si trova negli scritti di monaci e monache di ogni tempo e luogo. Vi sono sensibile, è inutile nasconderlo, così vi faccio sempre caso. Recentemente mi sono imbattuto in tre esempi a distanza ravvicinata.
Teresa di Lisieux: «Desidero essere dimenticata, e non soltanto dalle creature, ma anche da me stessa. Vorrei essere ridotta a nulla fino al punto da non avere più alcun desiderio» (ca. 1890).
Thomas Merton: «Ho bisogno di solitudine, perché ho bisogno di essere niente, di scomparire: tamquam purgamenta huius mundi [come la spazzatura di questo mondo]. Ho una spaventosa vergogna della stolta pubblicità ormai legata al nome di Thomas Merton» (1952).
Nazarena (Julia Crotta): «Infine, Padre, vorrei raccomandarle di non parlare di me né di serbare miei ricordi o cose fatte da me. Devo essere ignota a tutti, nascondermi dietro i lavori più ordinari» (1959).
È curioso. Perché quest’ansia di essere dimenticati? Non è forse quello che, di fatto, accade? Non è l’anonimato la condizione «di base»? Che bisogno c’è di scomparire quando già lo siamo, «scomparsi»? Il tema non si riduce a questo, ma a me pare che tale preoccupazione nasca dal pensiero, inconfessabile per un religioso, che la propria azione, la propria vicenda sia invece memorabile, per non dire unica. Un intollerabile peccato di vanagloria, quindi, che detta quegli accenti a volte disperati (una specie di excusatio non petita). E ci trovo un tratto di umanità che in qualche modo mi fa sorridere.
Lasciate fare al tempo, mi verrebbe da dir loro…