(la prima parte è qui)
E visto che ho parlato di elenchi, diamo un’occhiata a questo, interessantissimo, tratto dal Libro di Ricordanze di Santa Verdiana del 1568 e che riporta «la nota della roba che le monache dovevano portare con sé nell’entrare in convento», la dote. Anzitutto il letto, sì, il letto «con saccone, Materasse, Coltrice, Piumaccio et dua Guanciali»; e ancora «uno Coltrone; una mezza Coltre; una Coltre a bottoncini; un Panno Lano bianco»; poi una quantità ragguardevole di stoffa di varia natura, tra cui 10 braccia di Perpignano monacile, 20 di Sventone bianco, 20 di Tela bottana azzurra, 60 di Panella da soggoli; sempre alla voce biancheria: 14 fazzoletti da capo e 20 da collo, 12 asciugamani e 25 tovagliolini; per l’arredamento: una seggiola e uno sgabello, «un quadro di Vergine: un Crocifisso di rilievo»; a corredo: 12 libbre di candele bianche, un breviario, un catino una cintura di cuoio, un paio di forbici grande, «una Scodella, uno Scodellino, un Piatto, ogni cosa di stagno; un quchiaio e una Forchetta d’argento per quando sono inferme». Senza dimenticare la dotazione specifica per la «sacratione», consistente in altri chilometri di stoffa, un esercito di candele e «una scatola di lb VI di confetto. Sei Pinocchiati di lb. 1/2 l’uno. Dieci fiaschi di Trebbiano e cento Berlingozzi. Dua lb. di Zuchero fine. Dieci ducati per la Pietanza». Una montagna di roba.
Già, la pietanza: «Ogni evento, allegro o triste, era celebrato con l’immancabile pietanza!», che spesso rappresentava un problema economico non da poco, soprattutto per le comunità meno beneficate. Sempre a Santa Verdiana, nel 1452, questa era la pietanza per la festa del fondatore dell’Ordine vallombrosano, Giovanni Gualberto: «Quindici taglieri per trenta religiose alle prime e alle seconde mense, trebbiano e susine e ciriege, e di poi vitella: libbra cento dodici e paia cinque di capponi e lingue e raviuoli e lacto con zuchero e cialdoni… [e alla sera] paia due di paperi e tre paia di polli e tre di pippioni e solecio». «Questi pranzi e rinfreschi erano arrivati a un tal segno, che per non andare in rovina, le monache dello stesso convento dovettero ricorrere nel ‘600 all’arcivescovo, supplicandolo di fare una specie di riforma interna, che fu detta appunto di moderazione.»
Oltre che di cibo, i Libri sono pieni anche di note economiche: spese di restauro, spese di conduzione degli edifici e degli annessi (il rinnovo dell’altare per 278 ducati; 14 scudi al fattore-ortolano e 7 al suo giovane aiuto; 46 scudi di lire 7 per scudo per la campana che «il 1° novembre 1591 suor Maria Benedetta Cicciaporci fece fare con la sua dota o entrata»); spese per i mortori, cioè il «desinare funebre»; registrazioni dei disobblighi («Se qualche famiglia voleva, per una ragione o un’altra, fare dispensare qualche sua congiunta dalla levata del Mattutino o dagli altri uffici che incombevano a turno su tutte le religiose, bastava che versasse una somma a parte, detta di disobbligo, fra i 100 e i 170 scudi»); spese per gli addobbi…
E poi le spese per le opere d’arte, «poiché le badesse si facevano un vanto di ornare e abbellire la loro chiesa, ricorrendo ai più provetti artisti del tempo», e in effetti nella Firenze del Trecento, del Quattrocento e del Cinquecento, anche a scegliere frettolosamente non si rischiava la mediocrità. Magari qualche problema poteva nascere dall’ingenuità delle claustrali, qualche problema o qualche burla, come quella raccontata dal Vasari a proposito di Buonamico Buffalmacco e delle monache di San Giovanni Evangelista.
(2-continua)
(Enrica Viviani della Robbia, Nei monasteri fiorentini, Sansoni 1946; disponibile anche su Internet Archive.)