Incuriosito dalla lettura del suo libro su «vita e spiritualità nel monachismo camaldolese primitivo» (L’eremo), ho cercato di leggere qualcos’altro della non estesa bibliografia del p. camaldolese Anselmo Giabbani. Così, ho recuperato Colloquio monastico1, pubblicato nel 1983, quasi quarant’anni dopo L’eremo. Il «colloquio» che compare nel titolo fa riferimento all’intenzione dell’autore di fare il punto sulle «questioni riguardanti la vita monastica» procedendo, almeno in un primo momento, seguendo il metodo delle domande e risposte, «al fine di ricavare il più possibile di chiarezza».
Senza dimenticare che nel frattempo sono passati altri quarant’anni, la lettura del piccolo volume è di grande interesse, e, pur nella concisione, o proprio grazie a essa, le «risposte» del p. Giabbani forse attingono a una dimensione diciamo così sovratemporale. Chi sono i monaci? Che cosa è proprio del monachesimo? E del monachesimo cristiano? Quali sono i cosiddetti valori monastici? Ma esiste una formazione monastica? Il dialogo è serrato, le risposte sono brevi e precise, ma palesemente non dogmatiche, piuttosto frutto del connubio di meditazione ed esperienza che è una delle «specialità» del monachesimo di tutti i tempi (nemmeno gli scienziati, mi pare, hanno riflettuto sulla propria «professione» mentre la esercitavano quanto i monaci; forse gli psicoanalisti, ma con molti meno… secoli di tradizione). Una prima fase del dialogo si conclude con questa domanda e con la relativa risposta: «Perché debbono esistere i monasteri? Non è che debbono esistere a priori; ma esistono perché all’interno della coscienza di alcuni credenti sboccia e s’impone un movimento interiore che richiede di essere sviluppato in un ambiente composto da altri fratelli, presi dallo stesso desiderio. Se questo desiderio non c’è, è giusto che gli ambienti servano ad altri scopi».
Il discorso non si limita, tuttavia, agli aspetti più generali, ma si addentra anche per così dire nell’attualità, e d’altra parte, se si considera l’attività del p. Giabbani tra le persone e le questioni del suo tempo, non poteva essere diversamente. E dunque, quali sono le «esigenze dell’uomo d’oggi» cui il monachesimo può rispondere direttamente o per le quali rappresentare indirettamente una via? Anzitutto il bisogno di unità della persona: l’esperienza di lacerazione, o anche soltanto, divisione interiore tra tentazioni, interessi, «divinità» terrene «è alla base del cammino monastico». In secondo luogo il bisogno di libertà, che dalle circostanze e dai modi della «civiltà moderna» è tanto proclamato quanto in realtà soffocato. L’aspirazione all’amore universale, come si può concretamente attuare «in persone libere che possono mediare senza interessi di alcun genere; in comunità accoglienti, capaci di trasformare la loro presenza in testimonianza evangelica». Infine, un po’ a sorpresa, nientemeno che l’amore di sé, inteso come crescita umana e cristiana: «Gli ostacoli che potrebbero venire contro una simile crescita, umile e disciplinata, non possono essere di origine evangelica», quindi non possono essere monastici.
La mia ammirazione di miscredente va, tra le altre cose, alla precisione delle formule, ad esempio a quell’inciso «umile e disciplinata». L’umiltà, infatti, aggiunge poco oltre il p. Giabbani, «è la verità ontologica, che porta a riconoscersi per quello che si è, e non per quello che pretendiamo di essere», è la verità morale, quindi di comportamento, ed è anche «la verità logica, che ci richiama all’oggettività dei fatti e del pensiero, a esprimere con sincerità quel che si pensa, evitando intrighi e doppiezza». Non oso, non sono in grado, di parlare di verità, ma come negare la sensazione di pulizia che provo davanti a queste parole (che soltanto parole, nel caso specifico, non sono)? Certo, il monachesimo è «verace ricerca di Dio»2, ma ignorerò per questo la bellezza del metodo?
(1-segue)
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- Anselmo Giabbani, Colloquio monastico, Edizioni Dehoniane Bologna 1983.
- «Cosa si può rispondere a un giovane che vuol farsi monaco? […] Si dichiari apertamente che l’impegno supremo del monaco è la verace ricerca di Dio non sulle vie del sentimento e neppure sulle vie della dialettica, anche se è bene e proficuo conoscere, ma sulle vie che Dio stesso ha percorso per venire verso l’uomo, per cercarlo, per farsi capire dall’uomo, fino a farsi uomo lui stesso.»
Trois jours et trois nuits. Le grand voyage des écrivains à l’abbaye de Lagrasse, préface de N. Diat, postface du père Emmanuel-Marie Le Fébure du Bus, Librairie Arthème Fayard / Pluriel 2021. «Dopo le recenti esperienze di confinamento, negli anni a venire forse proprio il chiostro sarà il nostro destino globale, se i viaggi e la mobilità saranno sempre più limitati da nuove pandemie o dalla paura di un aggravamento ulteriore della crisi climatica. Le piccole società monastiche, sobrie e autosufficienti, sarebbero quindi una prefigurazione del nostro futuro: quanto di più arcaico diventerebbe quanto mai attuale.» Così Pascal Bruckner riassume le sue riflessioni nel testo che apre il libro. Libro raccoglie i testi che quindici narratori, giornalisti, intellettuali francesi, «orchestrati» da Nicolas Diat, hanno scritto dopo aver passato il breve soggiorno indicato dal titolo presso i canonici agostiniani dell’
Raphaël Buyse, Un dio diverso, traduzione di L. Marino, Qiqajon-Comunità di Bose 2019 (trad. di Autrement, Dieu, 2019). L’autore, sacerdote, di questo piccolo libro ispirato («Ci sono libri che si divorano e altri che si assaporano lentamente. Un Dio diverso appartiene a entrambe le categorie», dice Enzo Bianchi) di giorni in un monastero (benedettino, belga) ne ha passati molti di più (tre anni) e così introduce il suo «resoconto»: «Quei pochi mesi passati al monastero di Clerlande mi hanno attirato in una strettoia. Hanno bruscamente interrotto il cammino che stavo facendo senza problemi da quasi sessant’anni. Più nulla è come prima. Né quello che sono, né quello che vorrei essere. E neanche quello che faccio. Quei pochi mesi di esperienza monastica hanno cambiato il corso della mia vita». Dopo anni di attività intensissima, la prolungata sosta presso una comunità di individui liberati da qualsiasi ambizione se non quella della ricerca di Dio («solidali, ma non intruppati») ha regalato a p. Buyse una prima scoperta: se interrogato direttamente, Dio tace («il suo silenzio mi ha mondato, purificato, disincrostato, strigliato, risciacquato, depurato. Mi ha cambiato, convertito, riformato e rifatto»). Prima scoperta sconvolgente e liberante, che lo ha portato a una seconda, altrettanto decisiva scoperta: «Senza tante chiacchiere, senza preconcetti ideologici e senza arroganza quei vecchi benedettini mi hanno rivelato quello che cercavano vivendo in quel luogo: l’unificazione profonda della persona». Ecco la vera scuola del monastero: l’essere umano, l’umanità («bisogna semplicemente credere nell’uomo. Nell’uomo amato da Dio»). E la comunità monastica diventa una specie di classe che accoglie scolari di tutte le età e provenienze, dove si studia, si mangia, si lavora, si prova in carne e ossa, insieme e con strumenti antichissimi, a contrastare la scissione che ci affligge, a inseguire giorno per giorno il desiderio di unità. Il Dio che parla, un Dio diverso appunto, non è altrove. «Ho compreso», scrive p. Buyse «che non c’è nulla da cercare altrove che nella profondità del quotidiano. […] Nella fragilità e nella grandezza del quotidiano si nasconde una profondità che ha il sapore dell’eternità: nell’uomo c’è qualcosa di più grande di lui. In questo io credo.» Eh, qualcosa…
Di grande interesse il numero più recente di
(la prima parte è 