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Spiriti liberi (Reperti, 64-65: Valéry; Ginsberg)

64. Nel saggio Variazioni sulla libertà, del 1938, poi raccolto in Sguardi sul mondo attuale1, Paul Valéry svolge una elegante e paradossale ricognizione sui contenuti reali del termine «libertà» come viene comunemente usato, appunto, nel mondo attuale: società, legalità, politica, persino le cosiddette opinioni personali. Inevitabilmente, le sue conclusioni sono cupe: «Prendiamo atto che i contorni del nostro spazio di libertà sono molto mutevoli. Ho paura che da mezzo secolo a questa parte la sua area non abbia fatto che restringersi». Il testo va letto nel contesto dell’epoca in cui è stato scritto, e in quello più ampio dell’opera di Valéry, ecc., ma quello che qui interessa è il «reperto», la conclusione, per la verità un po’ affrettata, del saggio, dopo che Valéry ha elencato altri «attori» della limitazione della nostra libertà, dal progresso all’«agio», dai «mezzi troppo potenti» della stampa alla «tirannia degli orari», all’odiatissima pubblicità che ogni cosa confonde («l’assassino, la vittima, l’eroe, il centenario del giorno e il bambino martire» e, aggiunge la voce del poeta, «falsifica gli aggettivi»). «Tutto questo mira al cervello», osserva Valéry, e conclude: «Ben presto bisognerà costruire chiostri rigorosamente isolati, dove non entreranno né la radio né i giornali, nei quali sarà salvaguardata e coltivata l’ignoranza di ogni politica. Si disprezzeranno la velocità, il numero, gli effetti di massa, di sorpresa, di contrasto, di ripetizione, di novità e di credulità. È lì che in determinati giorni si andrà a osservare, attraverso le grate, alcuni esemplari di uomini liberi». Costruire chiostri o ripopolare quelli esistenti?

65. Nell’estate del 1957 Allen Ginsberg si trova in Italia, assieme a Peter Orlovsky: Venezia, Firenze, Roma, Perugia, Padova, di nuovo Venezia. All’inizio di agosto, con un «accelerato» da Roma, i due arrivano ad Assisi, sulle tracce di san Francesco, del quale Ginsberg ha letto tempo prima un volume di scritti («Avevo letto un sacco di cose su Francesco l’estate scorsa su al Nord», scrive al padre Louis, «& storicamente ero preparatissimo alla scena»2) e il cui «atteggiamento serafico e mite tra le braccia della povertà lo rendeva una figura “beat” nel senso classico in cui la intendeva Kerouac» (Michael Schumacher). I due, «sporchi con la barba lunga (“& i capelli che avevano bisogno del barbiere”) & mangiando latte & salame & frutta per la strada»), si presentano al convento, nella speranza di potervi passare la notte, ma a quanto pare i frati non sono molto dell’idea e chiedono una donazione. A corto di soldi, e un po’ sconcertati («Ho avuto l’impressione che sarebbero stati infastiditi dallo stesso san Francesco se fosse ricomparso ad Assisi nel suo mantello sbrindellato, mendicando e cantando per le strade come era solito fare», scrive Allen al fratello Eugene), Ginsberg e Orlovsky si arrangiano a dormire all’aperto («2 notti calde»), non senza discutere con i frati che parlano l’inglese di religione, Chiesa e Vaticano. «In effetti», commenta Ginsberg, «ci siamo comportati proprio come dei pazzi francescani & gli abbiamo letto poesie & e li abbiamo fatti venire fuori tutti a sbirciare di notte per vedere se eravamo davvero a dormire fuori davanti al loro santo rifugio.» (Tra parentesi, per averne un’idea, i francescani che i due incontrarono sono più o meno gli stessi che si possono vedere nel famoso filmato che mostra l’incontro, nel 1964, di Roberto Rossellini con i frati che avevano partecipato al suo film Francesco, giullare di Dio.) La definirei una scena impagabile, ed è lo stesso Ginsberg a dire che «da quando sono in Europa forse non mi sono mai divertito tanto».

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  1. Sguardi sul mondo attuale e altri saggi, a cura di F.C. Papparo, Adelphi 1994, pp. 55-76.
  2. Le citazioni, salvo diversa indicazione, sono tratte dalla lettera del 10 agosto 1957; in Allen e Louis Ginsberg, Affari di famiglia. Lettere scelte 1957-1965, a cura di M. Schumacher, edizione italiana a cura di M. Premoli, Archinto 2007. [Uno splendido carteggio.]

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Il sistema dei monasteri (Reperti, 36: Paul Valéry)

36. All’interno della rubrica «Gladiator», una delle trentuno sezioni in cui Paul Valéry ha suddiviso l’oceano delle sue annotazioni noto con il titolo di Quaderni1, ci sono tre brevi asserzioni che mi sono sempre sembrate come un riflesso della forma di vita monastica. Me le ha fatte tornare in mente la citazione dell’abate di Acey, che ho riportato nell’appunto precedente: «Vivere la fraternità secondo il vangelo non ha niente di spontaneo. Esige un lungo cammino di conversione»2. Nella struttura concettuale dispiegata da Valéry tali affermazioni sono prive di connessioni con qualsiasi idea di «fede», nondimeno rappresentano con ammirevole sintesi un «programma» e direi che non stonerebbero tra i detti di un Padre del deserto.

Eccole qua, riportate alterando l’ordine cronologico di stesura:

«L’uomo non fa bene niente in modo naturale.»

«L’uomo è qualcosa soltanto grazie al suo sforzo contro ciò che egli è.»

«C’è soltanto una cosa da fare: rifarsi. Non è semplice.»3

Non ricordavo, invece, che verso la fine della rubrica (la data di stesura è il 1936) compare un brano intitolato precisamente «Monaco» e ascritto anche alla rubrica «Theta», quella dedicata alle «cose divine». Rendendo onore alle «invenzioni» introdotte dalla Chiesa nella formazione degli spiriti, Valéry ne ricorda alcune prettamente monastiche, tra cui «la “meditazione” a ora fissa», «la giornata ben divisa. La notte non trascurata», «il valore dell’alba».

«Forse», aggiunge il poeta, «ci è voluto il sistema dei monasteri del X e dell’XI secolo per ricostituire uno spirito – – libero e possente contro lo stato in cui a quell’epoca versavano le cose e gli uomini», e conclude con una definizione che forse non è del tutto scevra di un certo «romanticismo monastico»: «Il monastero, bozzolo in cui il bruco spirituale poté aspettare il tempo del suo volo»4.

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  1. Paul Valéry, Quaderni, vol. I: I quaderni, Ego, Ego Scriptor, Gladiator, a cura di J. Robinson-Valéry, Adelphi 1985.
  2. La «spontaneità», peraltro, è uno dei bersagli di Valéry: «Io nutro una tale diffidenza nei confronti di tutto ciò che è Spontaneo (di cui non posso mai credere che valga qualcosa…)», ivi, p. 382.
  3. Ivi, pp. 390, 377, 372.
  4. Ivi, p. 402.

 

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