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Viaggi (Reperti, 68-69: Baretti; Luzi)

68. Nel settembre del 1760 Giuseppe Baretti visita il convento francescano di Mafra, lo smisurato complesso («non credo vi sieno dieci edifizi maggiori di quello sulla schiena del nostro globo») fondato dal re Giovanni V e la cui costruzione, iniziata nel 1717, sarà poi al centro del romanzo di José Saramago, Memoriale del convento. La visita è raccontata in una delle Lettere familiari a’ suoi tre fratelli: Filippo, Giovanni e Amedeo, in realtà mai spedite e pubblicate nel 1762-631. Il Baretti si dilunga, comprensibilmente, sulle due spropositate biblioteche del convento, non senza però tralasciare alcune osservazioni sull’edificio e sui suoi abitanti che, come si suol dire, sono assai «gustose». Si diceva delle dimensioni, e «che sia un convento capace, ve lo dicano trecento padri e centocinquanta conversi che contiene, tutti francescani dal primo all’ultimo»; per non parlare dei lunghissimi dormitori e delle celle, che sono «stanze da prelati anzi che celle da frati»; e poi il sontuoso refettorio, dove il Baretti entra «poco prima che i religiosi si mettessero a tavola». E tu guarda: «Ogni due padri avevano un bel boccale di maiolica pieno di vino e un gran pane; e sur un tagliere di legno del Brasile sei buoni fichi e due belle pere e un grappol d’uva e un limone per ciascuno. Le lor pietanze mi dicono che sono tre, e tutto a spese del re». Che se uno fa due conti sono 900 fichi, 300 pere un bel tot di chili d’uva e 300 limoni pro die

* * *

69. Durante il viaggio immaginario che Mario Luzi fa compiere a Simone Martini e ai suoi compagni di strada da Avignone a Siena, nell’imminenza della morte del pittore nel 13442, i pellegrini vengono accolti per una sera in un monastero di clausura femminile, presumibilmente in terra francese. La poesia che «registra» la serata si intitola Tappa e ricovero e dimostra la esatta e sentita partecipazione di Luzi al «fatto monastico», e sembra peraltro sgorgare da una circostanza odierna e non da una visione plausibile del XIV secolo. A cominciare dal memorabile attacco:

E intanto lievemente

le monache – poche e invisibili –

preparano per gli ospiti profani,

e le aprono, un seguito di camere,

le stesse dove vissero

la regola e le vive ispirazioni

di quella plenaria solitudine

esse, e prima di esse

le altre innumerabili

che furono a quel macero

nei lunghi secoli dell’eremo

Non siamo forse di fronte all’arrivo di qualche nostro contemporaneo presso la foresteria di un monastero ormai quasi deserto che ricava qualcosa dall’ospitalità? Non è di oggi il muto e rispettoso sconcerto di fronte a quel vuoto (la «vuota arnia della pura ed infima pazienza») carico di vicende passate e di passate presenze? Odierno è anche il catalogo che Luzi fa di quelle «presenze», fitto di acutissime scelte di termini:

Alcune qui si persero,

abbuiarono qui il loro cielo

in minimi puntigli, qui si accesero

alcune d’acrimonie e invidie, alcune

si spartirono in letizia

tra opera e preghiera, qui bruciarono

altre una per una

le scorie dell’infelicità

e temprarono

lo spirito allo spirito, volarono

alto – o il paradiso era già in loro…

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  1. Giuseppe Baretti, Lettera XXVIII, in Opere scelte, a cura di B. Maier, vol. II, Utet 1972, pp. 201-207. Non si creda ch’io sia abituale lettore del Baretti, per quanto non mi dispiacerebbe, diciamo che mi sono imbattuto in questa divertente «lettera» per caso.
  2. Mario Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Garzanti 1994, pp. 67-68.

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Fuori, dentro (Reperti, 66-67: Volponi; Nooteboom)

66. Tra gli inediti di Paolo Volponi resi disponibili dalla nuova edizione della sua opera poetica1 è emersa una poesia, databile al 1960, dedicata alla monacazione della sorella Maria Luisa. È un testo triste e non privo di rammarico per quella che Volponi vive come una definitiva separazione, se non addirittura come una «perdita». Non sente più la sorella, anche se sa che «laggiù, in fondo / dove tutto è più scuro / laggiù canta mia sorella, / la mia bianca sorella / ormai sorella di tutti»; non la vede più, anche se sa che è dietro quel muro «di mattoni sconnessi», fragile eppure impenetrabile, confusa in «quel povero branco di sventurate», di «dolci sciagurate» il cui fiato vitale dilegua nel canto. Il fratello è rimasto solo, in piedi davanti al recinto del monastero, e vede «soltanto / un albero, un tetto, / il muro di un giardino», guarda e cede al rimpianto:

Laggiù, in fondo

canta una sorella non più mia

io chiudo gli orecchi

perché vorrei sentire la sua voce.

67. Nei suoi «itinerari spagnoli»1, sulla strada da Barcellona a Soria, lo scrittore olandese Cees Nooteboom fa una tappa al «convento di Veruela», cioè al Real Monasterio de Santa María de Veruela, la più antica fondazione cistercense in Aragona. Il brano che ricava dalla visita può essere definito la tipica pagina di libro di viaggio di epoca pre-Internet: un po’ di descrizioni di ambienti, monumenti e sepolture – accurate, come oggi si verifica con facilità in rete; un po’ di informazioni sul monachesimo per contestualizzare – succinte, ma precise e ben dette; e le «impressioni» dello scrittore, che – siamo nel 1981 – gode della clamorosa possibilità di aggirarsi per il monastero in assoluta solitudine. E in queste impressioni ho riconosciuto un tratto assai familiare, sensazioni che ho provato molte volte. Ho riconosciuto l’effetto di «trasferimento» che si attiva al passaggio dall’esterno all’interno: «La macchina del tempo esiste davvero», scrive Nooteboom, «mi trovo in una capsula, protetto dalla morte e da ogni sventura, calato negli abissi del medioevo per sempre scomparso. Dove sono ora invece questo tipo di vita continua a esistere come in una coltura microbica del secolo ventesimo» (ecco, forse non direi «microbica»). E in particolare ho condiviso un sentimento preciso che deriva dal camminare in quello come in tutti i chiostri, se non in quella come in tutte le chiese:

Anche se si toglie a queste esperienze ciò a cui non si crede, resta pur sempre l’imponderabile, che altri in questo luogo credono e, soprattutto, hanno creduto.

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  1. Paolo Volponi, Poesie, a cura di E. Zinato, Einaudi 2024 (p. 439-40).
  2. Cees Nooteboom, Verso Santiago. Itinerari spagnoli, traduzione di L. Pignatti, Feltrinelli 1994 (ora Verso Santiago. Digressioni sulle strade di Spagna, Iperborea 2023). Il «reperto» in questione è alle pagine 14-19 dell’edizione Feltrinelli.

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Spiriti liberi (Reperti, 64-65: Valéry; Ginsberg)

64. Nel saggio Variazioni sulla libertà, del 1938, poi raccolto in Sguardi sul mondo attuale1, Paul Valéry svolge una elegante e paradossale ricognizione sui contenuti reali del termine «libertà» come viene comunemente usato, appunto, nel mondo attuale: società, legalità, politica, persino le cosiddette opinioni personali. Inevitabilmente, le sue conclusioni sono cupe: «Prendiamo atto che i contorni del nostro spazio di libertà sono molto mutevoli. Ho paura che da mezzo secolo a questa parte la sua area non abbia fatto che restringersi». Il testo va letto nel contesto dell’epoca in cui è stato scritto, e in quello più ampio dell’opera di Valéry, ecc., ma quello che qui interessa è il «reperto», la conclusione, per la verità un po’ affrettata, del saggio, dopo che Valéry ha elencato altri «attori» della limitazione della nostra libertà, dal progresso all’«agio», dai «mezzi troppo potenti» della stampa alla «tirannia degli orari», all’odiatissima pubblicità che ogni cosa confonde («l’assassino, la vittima, l’eroe, il centenario del giorno e il bambino martire» e, aggiunge la voce del poeta, «falsifica gli aggettivi»). «Tutto questo mira al cervello», osserva Valéry, e conclude: «Ben presto bisognerà costruire chiostri rigorosamente isolati, dove non entreranno né la radio né i giornali, nei quali sarà salvaguardata e coltivata l’ignoranza di ogni politica. Si disprezzeranno la velocità, il numero, gli effetti di massa, di sorpresa, di contrasto, di ripetizione, di novità e di credulità. È lì che in determinati giorni si andrà a osservare, attraverso le grate, alcuni esemplari di uomini liberi». Costruire chiostri o ripopolare quelli esistenti?

65. Nell’estate del 1957 Allen Ginsberg si trova in Italia, assieme a Peter Orlovsky: Venezia, Firenze, Roma, Perugia, Padova, di nuovo Venezia. All’inizio di agosto, con un «accelerato» da Roma, i due arrivano ad Assisi, sulle tracce di san Francesco, del quale Ginsberg ha letto tempo prima un volume di scritti («Avevo letto un sacco di cose su Francesco l’estate scorsa su al Nord», scrive al padre Louis, «& storicamente ero preparatissimo alla scena»2) e il cui «atteggiamento serafico e mite tra le braccia della povertà lo rendeva una figura “beat” nel senso classico in cui la intendeva Kerouac» (Michael Schumacher). I due, «sporchi con la barba lunga (“& i capelli che avevano bisogno del barbiere”) & mangiando latte & salame & frutta per la strada»), si presentano al convento, nella speranza di potervi passare la notte, ma a quanto pare i frati non sono molto dell’idea e chiedono una donazione. A corto di soldi, e un po’ sconcertati («Ho avuto l’impressione che sarebbero stati infastiditi dallo stesso san Francesco se fosse ricomparso ad Assisi nel suo mantello sbrindellato, mendicando e cantando per le strade come era solito fare», scrive Allen al fratello Eugene), Ginsberg e Orlovsky si arrangiano a dormire all’aperto («2 notti calde»), non senza discutere con i frati che parlano l’inglese di religione, Chiesa e Vaticano. «In effetti», commenta Ginsberg, «ci siamo comportati proprio come dei pazzi francescani & gli abbiamo letto poesie & e li abbiamo fatti venire fuori tutti a sbirciare di notte per vedere se eravamo davvero a dormire fuori davanti al loro santo rifugio.» (Tra parentesi, per averne un’idea, i francescani che i due incontrarono sono più o meno gli stessi che si possono vedere nel famoso filmato che mostra l’incontro, nel 1964, di Roberto Rossellini con i frati che avevano partecipato al suo film Francesco, giullare di Dio.) La definirei una scena impagabile, ed è lo stesso Ginsberg a dire che «da quando sono in Europa forse non mi sono mai divertito tanto».

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  1. Sguardi sul mondo attuale e altri saggi, a cura di F.C. Papparo, Adelphi 1994, pp. 55-76.
  2. Le citazioni, salvo diversa indicazione, sono tratte dalla lettera del 10 agosto 1957; in Allen e Louis Ginsberg, Affari di famiglia. Lettere scelte 1957-1965, a cura di M. Schumacher, edizione italiana a cura di M. Premoli, Archinto 2007. [Uno splendido carteggio.]

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«Tonache nere dall’incedere silenzioso, assorto» (Reperti, 63: Gottfried Benn)

Alla fine della prima parte del Tolemaico, «novella berlinese del 1947», e sua prima pubblicazione dopo la catastrofe della guerra, Gottfried Benn se ne esce con una profezia, o più semplicemente un’ipotesi, per il XXI secolo molto singolare.

Sullo sfondo di un paesaggio urbano di gelo e macerie, Il paese del loto, così s’intitola la prima parte della «novella», prosegue la distruzione per numerose pagine, per giungere infine a due «spettacoli» impressionanti: «La sociologia e il vuoto!» – la fine dell’individualità e il nulla replicato che ne ha preso il posto. In un panorama di frammenti e gesti meccanici, «lo Spirito o gli dei o ciò che era stato della sostanza umana» si ritrae dalla terra: nonostante alcuni colpi di coda prevedibili «il dogma, quello dell’homo sapiens, era giunto alla fine».

Bene, davanti a questo quadro carico di ottimismo, Benn dice che non ci sono dubbi, «il secolo a venire avrebbe ammesso ancora soltanto due tipi [maschili, va detto]: quelli che agivano e puntavano in alto, e quelli che attendevano in silenzio la metamorfosi – criminali e monaci, non sarebbe più esistito altro».

Risorgeranno gli Ordini, dice ancora Benn, torneranno «i frati», «tonache nere dall’incedere silenzioso, assorto» popoleranno «nuovi monti Athos e Cassino». Soltanto così, cioè solo con l’autistica opzione monaci, forse sarà possibile una riconciliazione «con il mondo perduto delle cose», grazie a solitudine, riti, rinuncia al consueto. Soltanto così l’anima si chiuderà di nuovo in se stessa, gusterà di nuovo il loto e potrà sperare e obliare».

Criminali o monaci. Dai, nient’altro?

♦ Gottfried Benn, Il tolemaico, in Romanzo del fenotipo, traduzione di A. Valtolina, Adelphi 1998, p. 112.

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Monks, monks everywhere (Reperti «speciali» 61-62: Cantimori, Tolkien)

Uno degli «effetti collaterali» di tutte queste letture monastiche è che, in poche parole… vedo monaci dappertutto, anche quando e dove non sono formalmente presenti. Parole-spia, frasi, situazioni, immagini che mi fanno dire: uhm, ma qui si parla di monaci. Anche questi sono «reperti», in fondo, ma di un tipo speciale, legati a una mia deformazione e non alla realtà, e così vanno presi. Ecco un paio di esempi recenti.

61. Concludendo la sua introduzione alla Crisi della civiltà di Johan Huizinga, Delio Cantimori mette in guardia contro gli «umanesimi» d’accatto che vengono indossati nelle «ore di distrazione» da coloro che non sono impegnati nella vita politica o sociale. «Sogni» li definisce, di fronte alla necessità di prendere atto della portata dei problemi e di individuare concrete prospettive di cambiamento, perché «arrivati a un certo punto, non sarebbe più possibile, mai più, parlare di libertà – neppur dello spirito –, neppur mediante ascesi, semplicità, rinuncia, elementarità di vita»1.

Ma cosa rappresenta quest’ultima sequenza se non la forma di vita monastica, mi son detto. Che nonostante tutto, però, non credo sia giusto sospingere nella dimensione del «sogno». La vita monastica non è un sogno per chi la vive, mentre forse lo è proprio per chi, nelle sue «ore di distrazione», la legge, la visita, la osserva, la sfiora (per me, ad esempio).

62. Nel primo dei Racconti perduti, La casetta del gioco perduto, Tolkien racconta di Eriol, «un viaggiatore venuto da terre lontane», che, giunto all’Isola Solitaria, una sera bussa alla porta di una casa minuscola che ha attirato la sua attenzione. È appunto la Casetta del Gioco Perduto di Lindo e Vairë, ed è abitata da una folta schiera di persone. Eriol si stupisce che così in tanti possano abitarvi, ma il suo ospite gli risponde: «Piccola è la casa, ma più piccoli ancora sono coloro che vi abitano – perché tutti quelli che entrano devono essere molto piccoli, o di loro spontaneo desiderio devono diventarlo proprio mentre stanno sulla soglia»2.

Il pensiero è andato immediatatamente all’umiltà, alla scelta di «piccolezza», che deve accompagnare chi desidera entrare in monastero: una piccola casa per chi vuole essere piccolo. Senza dimenticare le parole di Benedetto circa l’ammissione di nuovi fratelli, che devono sostare all’ingresso, praticamente sulla soglia, anche a lungo prima di poter varcare la porta del chiostro e cominciare il loro percorso («Se insiste per entrare e per tre o quattro giorni dimostra di saper sopportare con pazienza i rifiuti poco lusinghieri e tutte le altre difficoltà opposte al suo ingresso, perseverando nella sua richiesta, sia pure accolto e ospitato per qualche giorno nella foresteria», RB, 58).

Sia che l’umiltà sia già stata conquistata (o ricevuta per grazia), o che sia un desiderio irresistibile, non si può entrare in un monastero «a testa alta», perché la sua porta, come quella del Regno, è piccola, bassa. Come ricorda anche Guerrico d’Igny, che casualmente ho sottomano: «Se gli uomini di alta statura non si curvano, questa bassa porta non li lascerà passare, anzi certamente farà cadere a terra il capo a molti e coloro che si avvicinano a testa alta, respinti, cadranno all’indietro con il capo troncato»3.

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  1. Delio Cantimori, Nelle ombre del domani, introduzione a J. Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi 1962, p. XXXII.
  2. J.R.R. Tolkien, Il libro dei racconti perduti, prima parte, a cura di C. Tolkien, traduzione di C. Pieruccini, Bompiani 2022, p. 25.
  3. Guerrico d’Igny, Sermone I per il Natale, in: Bianca Betto, Guerrico d’Igny e i suoi sermoni, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 1988, p. 201.

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Immunità e svegliarine monastiche (Reperti 59-60: Belotti; Scipione)

59. Bancarella di libri vecchi; scorro i dorsi rovinati (un tempo erano molto più frequenti le scritte in orizzontale); Bortolo Belotti, Poesie della montagna del fiume e della valle; lo prendo, ovviamente; lo apro a caso; pagina 101, primo di tre sonetti dedicati al cosiddetto giuramento di Pontida del 1167 – tutta questa strada per leggere le due terzine:

Belotti

Ora, nativo di Zogno (in Val Brembana), studente modello, dotto giurista, politico liberale, ministro del Regno, storico insigne (in particolare di Bergamo e dei bergamaschi), il Belotti è poeta un po’ attardato (le Poesie succitate sono del 1935, Montale ha pubblicato gli Ossi dieci anni prima e sta finendo di scrivere Le occasioni, per dire), però con quel «recinti immuni», detto dell’abbazia benedettina di San Giacomo Maggiore a Pontida, ha colto qualcosa. Lo si può dire dei chiostri in generale, che siano recinti immuni, anche se viene da chiedersi da cosa, e la risposta, la speranza, oggi, non può che essere una: da solitudine e disperazione.

60. Tra luglio e settembre del 1929 Scipione, sempre malato, passa una breve estate felice in Ciociaria («Io sto alla “Trattoria della stella d’Italia a Collepardo [Frosinone]»)1 e, raggiunto da Mario Mafai, va a visitare la Certosa di Trisulti, dove, salutato l’amico, rimane per qualche tempo: un soggiorno che lascerà una traccia non labile nei suoi ricordi e qualche testimonianza nei suoi olii e nei disegni. Ma non solo. In Carte segrete, l’antologia di scritti di Scipione approntata in forma «definitiva» (e «sforbiciata») da Enrico Falqui nel 1943 per Vallecchi, sono riportate, insieme con le «sue splendide dieci poesie» (come le definisce Amelia Rosselli), alcune lettere «a un reverendo», un monaco certosino che Scipione aveva conosciuto a Trisulti. In esse, di qualche anno posteriori al soggiorno, oltre a confessare al «carissimo Padre» i suoi turbamenti spirituali, Scipione torna spesso a quell’esperienza, a «quella pausa bianca, cara, che è forse la cosa più buona della mia vita»: «Oh! avessi io dato retta a quella voce che mi seguiva da presso e con la quale Dio mi indicava quella che doveva essere la mia vita. Oh! che adesso sarei a cantare le lodi del Signore invece di essere un rottame di naufragio che l’oceano deve consumare. […] Mi prese per mano, mi portò alla certosa e mi diceva in orecchio: Fatti certosino, fatti certosino».

Botticelli svegliarinoE tra i molti ricordi che si susseguono, carichi di nostalgia, uno mi ha permesso di imparare una cosa che, mea incredibile culpa, non sapevo, né m’era mai venuto di approfondire. Scrive ancora Scipione, da Roma, all’anonimo monaco: «… il rumore di una fontanina in un piccolo cortile subito mi trascina lontano nella cara Certosa, quando nella notte mi svegliavo con la Svegliatrice celeste o scendevo nella chiesa per il mattutino». Col nome di Svegliatrice o Svegliarina celeste, pare che Scipione si riferisca a santa Teresa del Bambin Gesù (di cui menziona altrove la chiesa romana al Pincio), ma non si può non pensare anche alla campanella che veniva usata dai monaci per accorrere alle ore canoniche, cioè allo svegliarino, o svegliatore, o destatore monastico, uno dei primi orologi meccanici della storia. Ovviamente descritto da Dante («… tin tin sonando con sì dolce nota», Paradiso, X, 139-144) e rappresentato, tra gli altri, da Botticelli nel suo affresco Sant’Agostino nel suo studio in Ognissanti, a Firenze.

  1. Lettera a Renato Mazzacurati, agosto 1929, in: Scipione, Carte segrete, prefazione di A. Rosselli, nota di P. Fossati, Einaudi 1982, p. 49. Da qui sono tratte tutte le citazioni, come quest’altra da una lettera a Libero de Libero, sempre dell’agosto 1929: «Dio! come è bella questa vita libera. Il mio sangue torna chiaro e mi sveglio al mattino col senso di felicità che non conoscevo».

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L’oscuro dramma del monaco recluso (Reperti 58: Angelini alla Certosa di Pavia)

CertosinoAllaFinestra58. Nelle pagine e nelle lettere di antiquata finezza, e per questo belle, per non dire confortanti, di Cesare Angelini (1886-1976) che ho letto non ho trovato finora moltissimi monaci; un po’ di abbati, «lodatissimi per pietà e dottrina», i dodici monaci biondi che seguirono Colombano e arrivarono al Lambro, qualche altra comparsa sfumata sullo sfondo: lì troverò, anche se forse gli sembravano un po’ lontani, come Benedetto che, salvata l’Italia e la civiltà, finì «in monastero a scandir salmi o a chiosar codici» (ma «creando tuttavia quelle correnti spirituali che non paiono ma salvano il mondo»). Ho già trovato però un mirabile testo dedicato alla Certosa di Pavia, pubblicato nel 1970 nella raccolta Questa mia Bassa1.

Mirabile per il tono di ferma malinconia, derivato da paziente frequentazione unita a una erudizione discreta, che sa di cara memoria più che di studio, per il ricordo conservato di una visita estiva con Ada Negri (e del «nostro pane e della nostra frittata» con cui «s’andò a fare un po’ di cena in un alberguccio poco discosto, tra i campi e i fossi»), per lo sguardo sereno che accompagna le informazioni («guardo i monumenti come guardo gli alberi, solo per rallegrarmi»), e per un’improvvisa apertura sul chiostro grande, la cui immagine bucolica cede a poco a poco il passo a una considerazione tanto vera quanto appena accennata:

«Dai portici… si passa al chiostro grande: un gran campo che secondo le stagioni, s’annunzia con sapore d’erba o di fieno, circondato con alti portici a vela e dove, staccate una dall’altra, s’allineano le ventiquattro celle dei monaci. Piacerebbe vederne uscire uno da una. Ma da troppo tempo la Certosa, che pure è ancora piena della loro presenza, è senza certosini; fuor quello dipinto (e par vivo) dal pio Bergognone su una parete interna del tempio, nell’atto d’affacciarsi a una finestra a dare il benvenuto ai visitatori che arrivano da ogni paese.

«E qui, tacendo la bellezza un poco provocante dell’arte, la Certosa torna natura; e nel gran silenzio, che è lo spazio in cui l’anima ha bisogno, il visitatore ritrova il senso intimo e religioso del monumento: cella, coelum, secondo la parola di Caterina da Siena.

«Anni fa, sull’architrave d’una cella lessi un motto propiziatorio: Pax multa in cella. E, sotto, scritta in un secondo tempo, un’altra parola che pareva rispondere alla prima: Si est in corde. Scritta da qualche visitatore impietoso o dalla stessa mano dell’ospite? E, per un momento, nel balenio dell’oscuro dramma del monaco recluso, mi parve che tutta franasse la grande serenità del monumento.»

Per una curiosa coincidenza, poco prima avevo letto una frase di un eremita contemporaneo che all’improvviso è risuonata in singolare consonanza con le parole di Cesare Angelini. Un brevissimo appunto di Frédéric Vermorel che si mette in guardia dall’«idolatria dei luoghi»: «La vocazione non coincide mai con il luogo, neppure per il monaco benedettino che fa voto di stabilità. La vocazione è sequela, sradicamento»2.

La bellezza dei luoghi monastici, il fascino delle valli remote, delle isole, del chiostro grande della Certosa di Pavia e di tutti i chiostri, della cella: tutte cose che rinfrescano solo il visitatore in fuga dal caos cittadino o segni di qualcos’altro?

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  1. Cesare Angelini, Questa mia bassa (e altre terre), All’Insegna del Pesce d’Oro 1970, seconda edizione accresciuta 1971.
  2. Frédéric Vermorel, Una solitudine ospitale. Diario di un eremita contemporaneo, prefazione di G.M. Bregantini, Edizioni Terra Santa 2021, p. 136.

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Parvulo claustro (Reperti 57: John Donne)

57. Nel secondo sonetto, «Annunciazione», della sequenza di sonetti intitolata La Corona, dedicati alla vita di Cristo e datati intorno al 1607-08, John Donne chiude il suo argomento con un’ennesima «acrobazia» concettuale e con un’immagine dall’indubitabile sapore monastico. Rivolgendosi direttamente alla Vergine, dice infatti John Donne, con voce fermissima:

Chi hai concepito ti concepì; invero tu sei ora / origine della tua origine e madre del padre tuo; / tu porti la luce dentro le tue tenebre; chiusa in angusta cella, / l’immensità nel chiostro del tuo dolce ventre1.

Questo chiostro è un’immagine molto «forte» e paradossale (essendo peraltro il paradosso la tonalità prevalente della sequenza, insieme con la circolarità), che non avevo mai incontrato – ma questo è segno soltanto della mia limitata conoscenza e della mia difficoltà, se così vogliamo chiamarla, con la persona e la figura della madre di Gesù.

Ebbene, il caso – quel caso che tanto ci piace – ha voluto che qualche giorno dopo abbia preso in mano le Lettere ad Agnese (di Boemia) di Chiara d’Assisi. Nella terza lettera, la cui datazione oscilla tra il 1237 e il 1238, al centro del messaggio di Chiara, che invita la sua corrispondente a perseverare nell’amore esclusivo di Cristo, si legge:

Unisciti alla dolcissima madre di lui, la quale generò un figlio tale che i cieli non potevano contenere, eppure lei lo raccolse nel piccolo chiostro del suo utero santo e lo portò nel suo grembo di fanciulla2.

E in questo caso l’originale latino merita di non essere messo in nota:

Ipsius dulcissime matri adhereas, quem talem genuit filium quem celi capere non poterant, et tamen ipsa parvulo claustro sacri uteri contulit et gremio puellari gestavit.

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  1. La traduzione italiana è di M.R. Cimnaghi, in John Donne, Vicina è la salvezza, a cura di R. Colla, La locusta 1988, p. 9. L’originale inglese recita: «Whom thou conceiv’st, conceiv’d; yea, thou art now / Thy Makers maker, and thy Fathers mother, / Thou hast light in darke; and shutt’st in little roome / Immensity, cloyster’d in thy dear wombe».
  2. Chiara d’Assisi, Lettere ad Agnese. La visione dello specchio, a cura di G. Pozzi e B. Rima, Adelphi 1999, pp. 129-31. È difficile usare termini esagerati per evidenziare al qualità di questo libretto rosso.

 

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Il mortologio (Reperti 56: d’Annunzio)

56. Dal 6 al 9 novembre 1898 Gabriele d’Annunzio è a Ferrara, dicono in compagnia della Duse, e si dedica a una serie di visite molto accurate, «taccuino alla mano», dei principali tesori artistici della città. Sono quattro giorni in cui il poeta si trasforma in una spugna dalla capacità assorbente pressoché illimitata, come dimostrano i relativi Taccuini, il XIX, il XX e il XXI, che riportano una serie di appunti che verranno fusi, rifusi e sviluppati, fino all’ultima parola, in scritti successivi di varia natura1. Tra i luoghi frequentati, addirittura per due giorni consecutivi, non sorprende la presenza del monastero delle clarisse del Corpus Domini, dove d’Annunzio visita le sepolture estensi, con particolare riguardo per quella di Lucrezia Borgia, ma rimane poi colpito dall’atmosfera che vi regna. Le pagine che ne sono testimonianza (piccole, circa 7 cm x 11, e scritte a matita) sono molto belle e mostrano già i segni della trasformazione delle cose in letteratura – una trasformazione ancora incompleta e quindi molto interessante. La morte è il tema, e il disfacimento prodotto dal tempo, l’abbandono, il passato remoto ne sono le variazioni.

Ad accoglierlo la prima volta ci sono quattro monache, curve e anzianissime:

La porta grigia si apre con stridore, entro. Mi attendono quattro clarisse con il volto coperto dal panno bruno. Odo le loro voci senili, sento la mancanza dei denti nelle loro bocche disfatte. Sembrano incappati che sieno per trasportare una bara.

La seconda volta a fargli da guida è un «custode», che «precede sonando il campanello, per avvertire le monache affinché si ritraggano o si velino», ma le quattro clarisse del giorno prima ci sono ancora – «ci seguono balbettando puerilmente» – e conducono il poeta al forno di santa Caterina Vegri. Già, perché prima di fondare e guidare il monastero del Corpus Domini di Bologna (dove il suo corpo incorrotto è visibile ancora oggi), Caterina Vegri è monaca a Ferrara, dal 1431, anno della sua vestizione, e in cui si insediano le clarisse, al 1456. Davanti ai mattoni anneriti, le monache raccontano che la santa

un giorno attendeva colà a cuocere il pane, quando fu chiamata alla preghiera. Ella lasciò il pane nel forno, raccomandandolo al Signore, e si partì per l’ufficio, ove restò circa quattro ore. Quando tornò al forno, essa e le compagne credevano di trovare il pane incenerito. Lo trovarono invece del color delle rose e odorifero e di sapore paradisiaco. Il Miracolo!2

Il drappello si avvia verso il refettorio e

la badessa afferma che si sente nel Monastero di tratto in tratto l’odore della Santa. Si sente specialmente quando qualcuna deve morire: è l’avvertimento della morte, è l’annunzio funebre. Allora in qualche luogo del Convento aleggia l’odore di Santa Caterina, e la Morte elegge la sua beata.

Il refettorio è molto più ampio di quanto servirebbe alla piccola comunità rimasta, che si raccoglie intorno a un solo tavolo sul fondo della sala. Uomo di parole, d’Annunzio è ovviamente attirato da un particolare:

Durante i pasti una di loro fa la lettura. V’è un leggio, e sul leggio un libro ove è tenuta nota delle suore che muoiono: il loro nome, la loro età, il giorno della loro morte. È il Mortologio. Lo leggono durante i pasti. È una commemorazione delle clarisse defunte.

Si può quasi sentire l’eco di quella debole voce in quello stanzone semivuoto. E forse non solo, come dimostra la trasformazione letteraria completa, in cui il Vate riscrive da par suo la scena, e vi aggiunge un particolare a effetto, ma nondimeno commovente:

La mano esangue e sgualcita della ottuagenaria apre il Mortologio, sopra un leggìo sperduto nel refettorio vastissimo dove le quattro superstiti occupano nelle ore dei pasti una menserella al fondo; e là tre nutricano la morte, e una legge il libro ove il trapasso d’ogni suora si registra; e le defunte clarisse così rimemorate vengono a risedersi su le panche e a rimasticare nella cenere il pane non incenerito3.

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  1. Gabriele d’Annunzio, Taccuini, a cura di E. Bianchetti e R. Forcella, Mondadori 1965, pp. 251-282; gli episodi qui annotati confluiranno ad esempio in alcune parti del romanzo Il secondo amante di Lucrezia Buti e di lì nella raccolta delle Faville del maglio (cfr. Le clarisse al limitare della morte e La tabella del lebbroso). Le citazioni sono prese da entrambe le fonti.
  2. È interessante vedere come il brano si trasforma nella pagina pubblicata: «Caterina Vegri attendeva a cuocere il pane della comunità, quando fu chiamata dalla campanella. Abbandonò il pane alla fiamma e l’accomandò al Signore, partendosi per l’ufizio. Divotamente al suo ufizio attese quattr’ore. Credette ella, tornando al forno, trovare il pane incenerito; e il medesimo credettero le compagne. Ma nella bocca ancor tiepida, e non più fosca ma rosea, lo videro d’un color dorato più dolce che l’oro delle aureole; e inebriate furono dall’odore, imparadisate furono dal sapore. O miracolo del celestiale frumento!» (da Le clarisse al limitare della morte).
  3. Sempre da Le clarisse al limitare della morte.

 

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Nuvole e frangette (Reperti 54-55: Penna; Magnani, su Morandi)

54. Al momento nelle miracolose poesie di Sandro Penna ho trovato solo questa breve ma non esile nota «monastica». Si trova nell’ultima strofa di Il balcone1, poesia pubblicata la prima volta nel 1934, che accoglie un incantamento (un canto lontano) e una visione (il mare, anch’esso lontano e ingannevole). Le «fantasie di viaggi», già ribadite da una «nera / lenta teoria di seminaristi», si allargano e si chiudono nelle immagini conclusive:

IL BALCONE

Sorprendeva il fanciullo in avventure,

entro libri lontane, dalle ville

il monotono canto delle serve

– la noia verde della primavera.

 

Vuoti abbagli sul mare.

Ma la nera

lenta teoria dei seminaristi

sulla riva lontana disegnava

– ancora – vaste fantasie di viaggi.

 

Veleggiavano nuvole di marmo

dorate sullo spento monastero.

Ritornava dal cimitero, lieve,

nelle vie del paese un carro nero.

Chissà perché «spento»: abbandonato, vuoto? Scuro, al confronto della luce circostante? Ricetto di vite «spente»?

55. Mi viene sempre da sorridere quando sento l’espressione «lavoro certosino» o le molte varianti di monastico, monacale, claustrale applicate a comuni circostanze di vite e ambienti laici. Ora non mi capita più, ma sarà successo anche a me di usarle in passato e non c’è niente di male nel farlo, anzi, è «bello» che si tratti di un’abitudine linguistica di tonalità positiva e che in fondo tutti capiscono nel medesimo senso. «La frangetta di capelli grigi sulla fronte addolciva l’espressione ascetica del suo volto, conferendo alla sua figura una mitezza monacale»; «Sottili lame di luce meridiana, filtrando attraverso le persiane socchiuse, facevano rilucere la lindura del pavimento e dei mobili, rilevare l’ordine perfetto, da cui si effondeva la serena quiete di un parlatorio di monache»; «Dopo breve attesa, accompagnato lungo lo stretto corridoio e attraversata la stanza da letto delle sorelle, passaggio obbligato, posto a guardia di una inviolabile clausura, giunsi nello studio di Morandi»: questi tre frammenti sono presi, infatti, dal volume che lo scrittore e musicologo Luigi Magnani ha lasciato a testimonianza della sua amicizia con Giorgio Morandi2. Difficilmente, pur avendo una conoscenza sommaria dell’opera e della leggenda del pittore, potrebbero darsi analogie e aggettivi più indicati ed eloquenti per restituire l’impressione che si ricava dai suoi quadri e dal suo volto; tanto che, quando alla fine del volume si legge questa breve didascalia riassuntiva, è impossibile non sovrapporre definitivamente l’immagine di Morandi a quella di un monaco (il corsivo è mio): «E si è tentati di riconoscere, adombrato nel suo stile, un tipico aspetto della sua personalità, quel suo essere presente nella vita pur quasi estraniandosi da essa, quel suo attivo partecipare agli aventi ed insieme sfuggirli».

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  1. Sandro Penna, Il balcone, in Poesie, prose e diari, a cura di R. Deidier, Mondadori 2017, p. 23.
  2. Luigi Magnani, Il mio Morandi. Un saggio e cinquantotto lettere, Einaudi 1982.

 

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