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Monks, monks everywhere (Reperti «speciali» 61-62: Cantimori, Tolkien)

Uno degli «effetti collaterali» di tutte queste letture monastiche è che, in poche parole… vedo monaci dappertutto, anche quando e dove non sono formalmente presenti. Parole-spia, frasi, situazioni, immagini che mi fanno dire: uhm, ma qui si parla di monaci. Anche questi sono «reperti», in fondo, ma di un tipo speciale, legati a una mia deformazione e non alla realtà, e così vanno presi. Ecco un paio di esempi recenti.

61. Concludendo la sua introduzione alla Crisi della civiltà di Johan Huizinga, Delio Cantimori mette in guardia contro gli «umanesimi» d’accatto che vengono indossati nelle «ore di distrazione» da coloro che non sono impegnati nella vita politica o sociale. «Sogni» li definisce, di fronte alla necessità di prendere atto della portata dei problemi e di individuare concrete prospettive di cambiamento, perché «arrivati a un certo punto, non sarebbe più possibile, mai più, parlare di libertà – neppur dello spirito –, neppur mediante ascesi, semplicità, rinuncia, elementarità di vita»1.

Ma cosa rappresenta quest’ultima sequenza se non la forma di vita monastica, mi son detto. Che nonostante tutto, però, non credo sia giusto sospingere nella dimensione del «sogno». La vita monastica non è un sogno per chi la vive, mentre forse lo è proprio per chi, nelle sue «ore di distrazione», la legge, la visita, la osserva, la sfiora (per me, ad esempio).

62. Nel primo dei Racconti perduti, La casetta del gioco perduto, Tolkien racconta di Eriol, «un viaggiatore venuto da terre lontane», che, giunto all’Isola Solitaria, una sera bussa alla porta di una casa minuscola che ha attirato la sua attenzione. È appunto la Casetta del Gioco Perduto di Lindo e Vairë, ed è abitata da una folta schiera di persone. Eriol si stupisce che così in tanti possano abitarvi, ma il suo ospite gli risponde: «Piccola è la casa, ma più piccoli ancora sono coloro che vi abitano – perché tutti quelli che entrano devono essere molto piccoli, o di loro spontaneo desiderio devono diventarlo proprio mentre stanno sulla soglia»2.

Il pensiero è andato immediatatamente all’umiltà, alla scelta di «piccolezza», che deve accompagnare chi desidera entrare in monastero: una piccola casa per chi vuole essere piccolo. Senza dimenticare le parole di Benedetto circa l’ammissione di nuovi fratelli, che devono sostare all’ingresso, praticamente sulla soglia, anche a lungo prima di poter varcare la porta del chiostro e cominciare il loro percorso («Se insiste per entrare e per tre o quattro giorni dimostra di saper sopportare con pazienza i rifiuti poco lusinghieri e tutte le altre difficoltà opposte al suo ingresso, perseverando nella sua richiesta, sia pure accolto e ospitato per qualche giorno nella foresteria», RB, 58).

Sia che l’umiltà sia già stata conquistata (o ricevuta per grazia), o che sia un desiderio irresistibile, non si può entrare in un monastero «a testa alta», perché la sua porta, come quella del Regno, è piccola, bassa. Come ricorda anche Guerrico d’Igny, che casualmente ho sottomano: «Se gli uomini di alta statura non si curvano, questa bassa porta non li lascerà passare, anzi certamente farà cadere a terra il capo a molti e coloro che si avvicinano a testa alta, respinti, cadranno all’indietro con il capo troncato»3.

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  1. Delio Cantimori, Nelle ombre del domani, introduzione a J. Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi 1962, p. XXXII.
  2. J.R.R. Tolkien, Il libro dei racconti perduti, prima parte, a cura di C. Tolkien, traduzione di C. Pieruccini, Bompiani 2022, p. 25.
  3. Guerrico d’Igny, Sermone I per il Natale, in: Bianca Betto, Guerrico d’Igny e i suoi sermoni, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 1988, p. 201.

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