Le Edizioni Dehoniane hanno giustamente ristampato in un volumetto a se stante Devota sobrietà, un magnifico testo del p. Giovanni Pozzi dedicato ad alcuni tratti caratteristici dei cappuccini, ordine di cui il filologo faceva parte. Non lo conoscevo, com’è ovvio, ed è stato per me una grande sorpresa.
In primo luogo sono stato messo in riga ancora una volta dall’erudizione del p. Pozzi, soprattutto nei capitoli sulla lingua degli scrittori cappuccini – questo non è tanto sorprendente, ma è comunque salutare.
In secondo luogo il testo mi ha aperto uno spiraglio su una spiritualità di cui, a parte le nozioni più comuni, non so quasi nulla, ma che mi affascina per il titanico tentativo di trasferire l’estremismo mite di Francesco da un singolo (o da un piccolo gruppo) a un vero istituto collettivo, a un ordine, e senza deformarlo. «Io da voi altro non vorria solamente giongessimo a questo stato del niente, ma prattico, non speculativo», scrive Gregorio da Napoli (morto nel 1601), chiedendo al frate cappuccino di annullare se stesso per vivere in Dio, ma con una nota, appunto, di concretezza spinta. Così, ad esempio, la precarietà, la provvisorietà, la povertà si traducono in una grande macchina normativa di prevenzione. Le comunità non possono essere proprietarie dei conventi in cui abitano, al punto che nelle prime costituzioni viene stabilito che ogni anno si faccia formale offerta di restituzione dell’immobile al proprietario che ne ha concesso l’uso.
Ogni elemento esteriore è accompagnato da una qualificazione che spinge verso il basso, o al massimo verso un’uniforme mediocrità. Gli abiti saranno «li più vili, abiecti, austeri, grossi e sprezzati panni»; le scarpe «sole… simplici, pure, vile e povere senza alcuna curiosità»; il cibo «carne, ova, caso, né pesci né altri cibi preciosi»; gli edifici «picole casipule, tuguri e umbraculi» e i materiali con i quali sono costruiti siano «vimini, luto, canne, matoni, crudi e vil materiale»; l’orazione sia «senza code o biscanto, cum voce non tropo alta o bassa, ma mediocre». Ogni cosa in vista di un’accettazione integrale del Vangelo, «con l’ochio puro, semplice, columbino e mundo de la fede». L’occhio columbino e mundo. Mi è venuta un gran voglia di approfondire.
C’è poi un tratto che circola in queste pagine e che mi ha colpito, se così si può dire, più da vicino. È un elemento evocato dallo stesso p. Pozzi, che così conclude il capitolo dedicato all’architettura cappuccina: «Nel contesto delle teorie architettoniche, un simile orientamento prende il nome di razionalismo. Tolti i richiami di ordine storico, lo si può riferire a una così rigorosa pratica architettonica a lungo applicata senza cedimenti o ridondanze». Sì, è come se nel ritratto tracciato dal p. Pozzi dell’identità cappuccina si respirasse, tra le altre, un’aria di solida razionalità: dato un obiettivo preciso, seguire il Vangelo integralmente e nient’altro, come ha detto e fatto Francesco, cosa dobbiamo fare?
Tra i tanti testi disponibili, lo studioso cita un’opera di Bartolomeo Vecchi (morto nel 1628), «riscontro eccezionale allo stile delle prime costituzioni». Si intitola, mirabilmente, Modo di incamminare i novizzi della nostra provincia di Bologna con santa uniformità di cerimonie e riti e non trascura un solo particolare della vita del frate, fino al modo di chiudere la finestra («accompagnando la merletta sul cappucciuolo con la mano»), fino ai vari «cesti e cestelli e canestri per raccogliere separatamente pane, vivande avanzate e frutta», fino a un codice completo per gli arredi e i vestimenti sacri («per ogni capo si descrive il modo di esporlo all’uso, ritirarlo, lavarlo, stirarlo, inamidarlo e riporlo»).
Oltre a seguire il Vangelo, qui si tenta di contrastare il disordine, e comprendo bene questo immane sforzo che si coagula intorno ai principi di nettezza e devozione (chiarezza e distinzione?): «Una nettezza cui non basta levar lo sporco, poiché trova il suo appagamento nel collocare ogni cosa con ordine ed eseguire ogni atto con proprietà».
Giovanni Pozzi, Devota sobrietà. L’identità cappuccina e i suoi simboli (2002), Edizioni Dehoniane 2015.