La nube (della non conoscenza)

E così, verso la fine del XIV secolo, un religioso inglese, strenuamente attaccato al proprio anonimato, se ne esce con questo breve trattato dedicato alla vita contemplativa, una specie di manuale ad uso del novizio, e alla «conoscenza» del Signore ottenibile soltanto attraverso, appunto, la «non conoscenza». «Ché se mai lo vedrai o sentirai in questa vita, sempre sarà in questa nube e questa oscurità.»

Se da un lato non posso accettare un inno a tale «oscurità», dall’altro non posso non ammirare la lingua che lo esprime e l’intelligenza che lo intona. È una delle risposte più chiare che mi sia capitato di leggere alla mia velleità di ragionare sulla fede. Una dichiarazione, certo, e non un’argomentazione – non vale, mi viene da dire –, ma comunque una risposta. Poiché l’ostacolo della vita contemplativa è anzitutto «la vista acuta e chiara dell’intelligenza naturale», «perché l’amore può raggiungere Dio anche in questa vita, ma la conoscenza no», perché «non c’è né mai ci sarà in questo mondo essere tanto puro e tanto in alto rapito a contemplazione […] senza che vi sia tra esso e il suo Dio un’alta e meravigliosa nube di non conoscenza».

La strada da percorrere per arrivare lassù sarebbe quella della preghiera (che è il coronamento della lettura e della riflessione), una preghiera concisa, di poche parole, anzi di «una breve parola di una sola sillaba»: sin, peccato. Cioè quel «bubbone di cui non sai nulla, ma che è null’altro che te stesso». Già, perché se intendo bene l’anonimo autore, il vero male è semplicemente essere: «Tutti hanno motivo di dolore, ma più di tutti colui che sa e sente che egli è».

Da bravo nipotino dell’Illuminismo mi irrito molto. L’oscurità è affascinante e il mistero può essere di conforto, ma soltanto perché c’è una zona sempre più ampia di luce alla quale so di poter tornare.

La nube della non conoscenza, a cura di Pietro Boitani, Adelphi 1998.

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