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Tanto preziosa quanto inimitabile (Schiacciare l’anima, pt. 3/5)

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 (la seconda parte è qui)

Decodificare certi sintomi, diceva il priore. L’ossessione per l’uniformità di pensiero; l’accettazione della menzogna (a partire anche dal dettaglio più insignificante), usata spesso per proteggersi dall’esterno (chi è fuori non può capire, quindi è inutile spiegare, meglio dissimulare); la «superbia» che spinge a pensare, e a dirsi, «noi siamo i migliori»; l’eccessiva centralità del fondatore o della fondatrice (che alimenta l’abitudine all’eccezione); il controllo esasperato dell’informazione (sia dell’esterno verso l’interno, che viceversa) – sono tutti «campi» assai fertili per lo sviluppo degli abusi.

Gli strumenti per contrastarli ci sono, si può dire che siano stati concepiti e messi a punto nel corso di un lavorio secolare. L’istituzione e i suoi organi (l’Ordine di cui fa parte la singola comunità, ma anche la Chiesa stessa); le «visite» canoniche, pastorali o apostoliche, stabilite dalle Costituzioni o richieste dalle circostanze; la Regola: strumenti antichi e collaudati, che pure talvolta possono malfunzionare o arrivare in ritardo, quando ormai il danno è fatto.

Cito due tra le tante osservazioni del priore sulla questione. «Negli ordini o nelle congregazioni antiche, ormai ben strutturate, con una lunga storia alle spalle, gli elementi correttivi sono già stati approntati da molto tempo e pertanto il problema sarà generalmente limitato a una specifica comunità senza coinvolgere l’insieme del corpo. È difficile immaginare l’Ordine benedettino nel suo insieme trascinato alla deriva, ma è capitato invece a singole abbazie.» «In una comunità il primo contro-potere è la comunità stessa. L’abate o il priore non fanno quello che vogliono. C’è la Regola e c’è la comunità.»

Il cuore del libro, se di cuore si può parlare in un volume privo di parti accessorie e di contorno, è rappresentato dai capitoli sull’obbedienza, cui ho già accennato, sull’ascesi e sull’accompagnamento spirituale (con le sue derive drammatiche e tragiche dell’abuso spirituale e sessuale).

L’obbedienza, anzitutto, in ambito monastico, si articola in tre dimensioni: secondo la Regola, davanti a Dio e in presenza dell’abate, e soltanto la seconda è assoluta, mentre la Regola lascia sempre un margine (di discrezione) nella sua concreta applicazione, e l’abate stesso è vincolato dall’obbedienza («La formula classica secondo la quale il superiore occupa ai nostri occhi il posto di Dio richiede di essere ben compresa, poiché ha condotto a numerosi eccessi», e quindi «nel contesto attuale» – preoccupazione costante del priore, questa dell’adeguamento al presente pur nel rispetto di una tradizione – è bene evitarla). L’obbedienza non deve essere cieca, va riferita soltanto alle «cose da fare» e va mantenuta nei limiti disegnati dalla Regola.

Qui come altrove è per me di grande interesse lo sforzo paziente che de Lassus compie per integrare in una visione aggiornata l’insegnamento e l’esempio di santi e sante vissuti cinquecento anni fa o più. In questo caso tocca a san Francesco di Sales e a sant’Ignazio, ma l’argomento è più generale e proverò a svolgerlo in altra occasione.

Obbedienza, ancora, non è «sottomissione del giudizio» né rinuncia alla propria intelligenza, soprattutto quando sono coinvolte altre persone: «Quando vi è di mezzo il bene delle persone, la responsabilità del religioso diventa più importante e non gli è più possibile fare qualunque cosa, con il pretesto che il suo superiore glielo ha comandato». La complessità dell’argomento mi porterebbe a un accumulo di citazioni, ma, per rifarmi a quell’«aggiornamento» di cui dicevo sopra, voglio segnalare almeno come il priore affronta un «luogo» tipico dell’obbedienza come viene non di rado esposto da autori cristiani del primo millennio.

Nello specifico si tratta del quarto «gradino» della Scala (santa) di Giovanni Climaco («Sulla beata e sempre memorabile obbedienza»), il quale, come si sa, per ottenere la vera libertà prescrive una totale abdicazione alla «tua responsabilità e alla tua intelligenza sottomettendoti totalmente e incondizionatamente a qualcuno che incarna la volontà di Dio su di te». Questa la risposta del priore: «Ci vorrebbe un libro a parte per analizzare La scala, vero monumento della spiritualità che contiene una dottrina tanto preziosa quanto inimitabile. Pretendere di trasportare nel XXI secolo questa sintesi del monachesimo siriano del VII secolo può provocare gravi danni.»

«Per obbedire veramente», conclude p. Dysmas, citando il p. Labourdette, «bisogna essere capaci di disobbedire».

(3-segue)

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La frase che si sente più spesso pronunciare (Schiacciare l’anima, pt. 2/5)

F4_le lassus_mini 2av.indd (la prima parte è qui)

Per parlare dell’ottimo libro1 di Dysmas de Lassus, priore della Certosa e priore generale dei Certosini, ero partito da alcune considerazioni sull’obbedienza. Quell’obbedienza che per il «grande valore che ha nella vita religiosa la rende particolarmente vulnerabile quando assume la forma dell’abuso spirituale» e che richiede oggi più che mai una «protezione», visto che «gli ultimi decenni hanno mostrato come poche nuove comunità siano riuscite a sfuggire a disfunzioni di ogni genere». Parole forti e impegnative che preludono a un’analisi molto dettagliata, scandita in capitoli dedicati alle sfere in cui tali disfunzioni più facilmente possono emergere: il carisma e l’istituzione, la vita comunitaria, il rapporto con il mondo esterno, l’obbedienza, l’ascesi, l’accompagnamento spirituale, e così via.

Si tratta secondo il priore di meccanismi perversi non specifici della vita religiosa (le «derive settarie» sono comuni a tutte le organizzazioni), ma che in essa possono assumere tratti molto pericolosi, e devastanti per chi ne è vittima, in virtù del carattere «estremo» di tale scelta di vita. L’estremismo, connaturato in certa misura con la vocazione, con cui si sceglie di seguire la strada indicata da Gesù (la sua «imitazione») è proprio ciò che può portare, ad esempio tramite la manipolazione, a una deformazione di quelle virtù che rappresentano la sostanza stessa della sequela: l’obbedienza diventa asservimento; l’umiltà « distruzione della legittima stima di sé»; il dono di sé cieca negazione dell’individualità; la trasparenza «perdita completa di ogni intimità personale»; lo stesso silenzio diventa omertà e la clausura reclusione, isolamento totale dal mondo esterno (un conto è il comportamento eccezionale del singolo individuo toccato da una grazia speciale, un conto è un sistema sostanzialmente imposto).

Il priore non esita ad affermare la facilità, peraltro ampiamente documentata dalla ricerca, con cui si può fare un «uso cattivo» degli strumenti tipici della vita religiosa, e anzi sottolinea che «una pratica tradizionale non offre di per sé una garanzia. La fecondità della vita religiosa non è data da questa o quella pratica particolare, ma dalla sapienza che riesce a unire in modo armonioso, differenziato e personalizzato, mezzi che non sono nulla presi singolarmente, ma che sono al servizio… di un desiderio comune a tutti: rispondere all’amore di Dio». Anche sorvolando su quelle due precisazioni ulteriori – differenziato e personalizzato –, che trovo molto significative, è notevole che il superiore di un Ordine millenario non esiti, appunto, a mettere in guardia dai falsi richiami alla tradizione.

È di fondamentale importanza quindi saper individuare i segni che in una determinata comunità indicano che sono in atto quei processi di «deviazione delle virtù» che inevitabilmente produrranno gli abusi. Abusi che, è bene sottolinearlo, e il priore lo fa lungo tutto il testo e in un capitolo apposito, non sono fenomeni astratti, ma gesti e comportamenti che hanno conseguenze drammaticamente reali, cioè anzitutto vittime, persone in carne ossa tradite nel loro più autentico slancio, che soffrono, che vengono «annientate» («La frase che si sente più spesso pronunciare: “Non so più chi sono”»), che devono affrontare un lungo e doloroso percorso di ricostruzione, che possono anche essere tentate dal suicidio.

«È molto difficile», ammette il priore, «per una persona esterna a una comunità, capire che cosa avviene all’interno. La facciata resta sempre protetta e le disfunzioni sono difficili da percepire se non si conoscono questi meccanismi e i mezzi per decodificare certi sintomi. Ma oggi non possiamo più dire: “Io non sapevo che questo esistesse”».

(2-segue)

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  1. Dysmas de Lassus, Risques et dérives de la vie religieuse, préface di Mgr José Rodriguez Carballo, Les Editions du Cerf 2020; trad. ital. di G. Lamieri, E. Antoniazzi e T. Testoni, Schiacciare l’anima. Gli abusi spirituali nella vita religiosa, EDB 2021.

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Spazzare il chiostro («Schiacciare l’anima» pt. 1/5)

F4_le lassus_mini 2av.inddAlla fine dell’anno scorso è uscito anche in traduzione italiana un libro piuttosto importante sugli «abusi spirituali nella vita religiosa»1. Frutto di una ricerca durata quattro anni, s’intitola, nell’originale francese, Rischi e derive della vita religiosa ed è firmato dal priore della Grande Certosa e superiore generale dei certosini Dysmas de Lassus. E anche questo è un aspetto rilevante della pubblicazione, che un monaco certosino abbia voluto affrontare apertamente la questione. Tanto che lo stesso dom Dysmas vi accenna in una breve nota a conclusione della sua premessa: «È tradizione nella Certosa non firmare un testo col proprio nome, ma soltanto così: un certosino. Il carattere particolare di questo testo invita a una deroga. L’argomento è troppo serio per l’anonimato: il lettore ha diritto di sapere chi parla. È prima di tutto la compassione verso tutti e tutte coloro che soffronto che ho intrapreso questo lavoro. Dio conceda che possa essere utile a qualcuno».

Prima di provare a stendere qualche nota di lettura sul libro nel suo complesso ci tengo a segnalare una delle molte, ottime pagine che dom Dysmas dedica all’obbedienza religiosa, ai suoi fraintendimenti e alle sue distorsioni. Si tratta del paragrafo intitolato La volontà del superiore non è la volontà di Dio e muove da una distinzione molto chiara e tuttavia spesso ignorata.

Il voto di obbedienza va sempre inteso come uno strumento di perfezione per chi lo emette, e quello che Dio conseguentemente chiede non è ciò – il gesto, l’azione, il «contenuto» – che il superiore o la superiora di turno chiede al monaco o alla monaca, bensì l’obbedienza stessa al superiore o alla superiora; l’obbedienza in sé e per sé (senza tuttavia che ciò implichi l’annullamento cieco della propria volontà o l’astensione dal discernimento), a imitazione di Gesù. «Questa precisazione», sottolinea il priore, «è talmente importante che bisognerebbe inciderla con lo scalpello sul frontone dei noviziati.» E l’esempio che dom Dysmas fa è, per così dire, molto gustoso, scelto forse anche per alleggerire per un momento l’atmosfera tesa, se non drammatica, delle sue pagine. Merita di essere riportato per esteso:

Se la superiora domanda a una religiosa di spazzare il chiostro pur sapendo che la comunità deve fare nel pomeriggio un lavoro che sporcherà lo stesso chiostro, la religiosa ha diritto di pensare che la cosa non è di buon senso e deve ricordare alla superiora ciò che ella ha forse dimenticato. Se la superiora mantiene il suo ordine, il discernimento è facile poiché spazzare il chiostro non fa male a nessuno. La religiosa si vede offrire una bella occasione per esprime al Signore il suo amore nella realtà concreta di un gesto quotidiano. Se spazza il chiostro non è a motivo del buon senso, che brilla per la sua assenza, né per far piacere alla superiora (attenzione a questo slittamento di significato, che trasforma un’obbedienza religiosa in un atto puramente umano), ma perché un giorno ha detto al Signore che avrebbe obbedito per amore di lui. E questo è sufficiente a dare un senso compiuto, totalmente umano, a un atto pensato e voluto con piena consapevolezza non per la sua utilità ma per il suo significato.

È il significato del gesto che conta, non il suo effettivo contenuto. Insistere sul cosa dell’obbedienza, cioè in sostanza domandarsi quale sia la volontà di Dio, è pericoloso «perché la volontà di Dio non ha come obiettivo il gesto di spazzare». Dom Dysmas rileva come questa domanda sia molto più diffusa oggi rispetto al passato e come derivi da un altrettanto pericoloso slittamento dalla soggettività all’oggettività: «“Signore, che cosa vuoi che io faccia?” diventa: “Signore, che cosa vuoi che sia fatto?”. L’“io” è scomparso, il criterio di riferimento non è più la relazione d’amore con Dio, fine primario dell’obbedienza religiosa, ma la realtà concreta, il chiostro e la scopa».

Il commento conclusivo del priore certosino, sobrio e composto come sempre, e tuttavia lucido e preoccupato, dice tutto: «Ne derivano molteplici complicazioni».

(1-segue)

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  1. Dysmas de Lassus, Risques et dérives de la vie religieuse, préface di Mgr José Rodriguez Carballo, Les Editions du Cerf 2020; trad. ital. di G. Lamieri, E. Antoniazzi e T. Testoni, Schiacciare l’anima. Gli abusi spirituali nella vita religiosa, EDB 2021.

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Anche soltanto per un capello (Monachesimo di Gaza e direzione spirituale, pt. 3/3)

(la prima parte è qui, la seconda qui)

NecessitaDelConsiglioLa risposta più ovvia dei Grandi Anziani del monachesimo di Gaza (Barsanufio e Giovanni), alla «domanda cruciale» – «Come so che sto facendo la volontà di Dio, invece della mia?» – è: Perché ho chiesto consiglio, ho chiesto cosa fare e ho fatto quello che mi è stato detto. Si è chiesto dunque al padre spirituale, a persona esperta, pronti a eseguire quanto suggerito, badando tuttavia a distinguere tra consiglio, che non comporta obbligazione ma, semmai, rimorso, e comandamento, che rappresenta invece una prescrizione inderogabile, e quindi un eventuale peccato di omissione, in virtù del fatto che a parlare per bocca dell’anziano è Dio stesso. La materia della direzione spirituale, vista da una prospettiva odierna, è delicata, oggetto di ripensamento dalle stesse persone di religione, intrecciata com’è a dinamiche psicologiche non sempre limpide e difficili da districare.

E se invece non si è potuto chiedere? In questo caso la risposta, ad esempio quella di Giovanni di Gaza1, si articola in tre parti. Le prime due, poco importa che siano dedicate alla condizione di monaco, sono semplici, e tuttavia difficili da accogliere oggi, per lo meno nel loro «integralismo». Se si è soli (nella propria cella), l’importante è rifuggire il piacere, «perché la volontà della carne è di ottenere il piacere in ogni cosa»; se invece si è in mezzo agli altri (confratelli), bisogna «morire al loro sguardo, stare in mezzo a loro come se non si esistesse»; come distinguere, infine, le risposte che provengono dai demoni? Qui le poche parole di Giovanni sono per così dire una lama ancor oggi affilatissima: «La volontà che viene dai demoni, invece, è la mania di giustificarsi e di riporre fiducia in se stessi, nella quale si finisce per rimanere intrappolati» (Lettera 173). Come non riconoscere la pretesa di essere nel giusto (non sto facendo nulla di male, io ho agito correttamente) e l’eccessiva sicurezza di sé, che sconfina nell’autocompiacimento (come sono bravo & co.)? E se la sorgente di queste suggestioni, come oggi è risaputo, non è esterna, bensì è dentro di me, non è ancor peggio?

La forma precipua della domanda che, in assenza dell’anziano, si rivolge a Dio è quella della preghiera, «oggetto» ai miei occhi complicatissimo quanto più se ne cerca la definizione. Le indicazioni di Giovanni sono tuttavia interessanti. Quante volte si deve pregare per ottenere l’ispirazione giusta? «Quando non puoi interrogare l’Anziano, devi pregare tre volte per ogni questione, poi osservare dove inclina il cuore, anche soltanto per un capello, e agire. Perché l’ispirazione è chiara ed è chiaramente riconoscibile nel cuore» (Lettera 365). E quando si deve farlo? «Se hai tempo, prega tre volte in tre giorni diversi. Ma se c’è un’urgenza, prendi a modello il Salvatore che, nell’ora del tradimento – circostanza assai dura da sopportare – si è fatto da parte tre volte e ha pronunciato la stessa preghiera.» E se non si viene ascoltati? In fondo anche Gesù non lo è stato… «E se evidentemente non è stato ascoltato, poiché il disegno divino doveva compiersi, ciò è accaduto per insegnarci a non rattristarci quando preghiamo e non veniamo esauditi nell’immediato; perché Egli conosce meglio di noi ciò che è bene per noi» (Lettera 366). E se comunque la risposta tarda a manifestarsi? «Se dopo la terza preghiera l’ispirazione non arriva, sappi che è colpa tua: se non vedi il peccato, incolpa te stesso e Dio avrà pietà di te» (Lettera 367).

È un meccanismo logico blindato, si potrebbe dire, in virtù del quale Colui al quale si rivolgono le proprie invocazioni «ha sempre ragione». Ma questa osservazione deriva dall’applicazione di un criterio razionale a una circostanza che non rientra nel dominio del razionale, e occorre essere disposti a riconoscere che tale dominio non sia l’unico campo di manifestazione della realtà.

Ho tardato a concludere queste note perché questo è lo scalino sul quale regolarmente inciampo.

(3-fine)

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  1. Queste note, come le precedenti, derivano dalla lettura di Lorenzo Perrone, La necessità del consiglio. Studi sul monachesimo di Gaza e la direzione spirituale, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2021. Le citazioni dai Grandi Anziani sono tratte da Barsanuphe et Jean de Gaza, Correspondance, texte critique, notes et index par F. Neyt et P. de Angelis-Noah, traduction par L. Regnault, Editions du Cérf; vol. I: Aux solitaires, t. 2 (1998; «Sources Chrétiennes», 427); vol. II: Aux cénobites, t. 1, (2000 «Sources Chrétiennes», 450).

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L’umile rendiconto («Un cammino ancora possibile?» di Jean-Claude Lavigne, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Cammino ancora possibileAperture, oscurità e luci: queste sono le categorie in cui il domenicano Jean-Claude Lavigne raccoglie i momenti distintivi del «percorso vocazionale»1. Le aperture, si diceva, sono prevalentemente incontri, anzitutto con la parola di Dio («Il cammino spirituale, se è cristiano, deve a un certo punto confrontarsi con la parola di Dio»), o con la parola di un altro («La nostra storia di salvezza è dinamica, un processo infinito di superamento che si nutre di incontri e dialoghi. […] L’avventura umana è questo viaggio tra le parole, con le parole»), o infine incontri con un luogo (dove la propria scelta può diventare radicale) o con altre persone («Uomini o donne che fanno venir voglia di imitarli»). Va sottolineato come queste circostanze, queste aperture, appunto, che in quanto tali, fanno pensare a un intervento, a un apporto, a un movimento dall’esterno verso l’interno, siano in realtà, secondo Lavigne, occasioni per dare forma a qualcosa che è già in noi, per risvegliare «il meglio di ciò che in noi è in attesa».

Sono parole molto confortanti (pensare che qualcosa di buono sia in attesa dentro di noi), come è molto confortante il riferimento alla cosiddetta «identità narrativa» di ciascuno, un concetto che il p. Lavigne mutua dal filosofo Paul Ricoeur: «L’identità di ciascuno passa attraverso una relazione con “l’altro” che si costituisce in una narrazione di sé incessantemente rinnovata; in gran parte noi siamo ciò che i racconti su noi stessi, condivisi con altri, ci aiutano a essere»; come ancora è confortante l’immagine dello Spirito Santo come «colui che apre delle brecce» attraverso le quali… Parole confortanti, ma che vanno respinte, o meglio: ascoltate, rispettate e lasciate nel loro giusto contesto di fede, senza avventurarsi in astrazioni.

In virtù, probabilmente, della medesima ostinazione intellettuale, sono le oscurità ad attirare con più forza, quelle che l’autore suddivide in notti e rigetti. Anche qui è bene resistere alla tentazione di astrarre e considerare quello che Lavigne elenca in relazione alla vita religiosa. E dunque: deliri (entusiasmi che sono in realtà turbamenti o vere e proprie turbe psicologiche), impotenze (le derive di un certo eroismo romantico), inquietudini (l’umana diffidenza), la paura dello sguardo degli altri, lo «sfasamento» (cioè una pericolosa estraneità alla propria epoca e un attaccamento ad arcaismi che sono soltanto «folclore»), e ancora monotonia, difficoltà e «macchine settarie», e ancora il richiamo della paternità e della maternità, della carriera e della libertà. A queste «obiezioni» il p. Lavigne risponde con un coraggioso ciononostante, con la pazienza di un lento discernimento, la consapevolezza dei propri limiti e fragilità, l’umiltà di chiedere aiuto (umano e divino), una serena aspirazione al bene possibile, l’insistenza a «osare domande che restano vive benché siano senza risposta».

Parole, ancora, molto confortanti, e anche illuminanti per chi cerca soltanto di capire e non di aderire, come questa cruciale distinzione che Lavigne mutua dal teologo Paul Tillich: «La fede non è un atto di conoscenza che comporti un qualche grado di certezza, forte o debole, perché allora sarebbe credenza, afferma Paul Tillich. La fede è certezza (concentrazione sull’infinito) e al tempo stesso incertezza radicale; il dubbio appartiene alla fede». E l’unica cosa che può affrontare il dubbio è, appunto, il coraggio.

Parole confortanti, che possono essere ascoltate, rispettate e lasciate nel loro contesto di fede, mentre si osserva con lucidità, e una punta di indulgenza, quello che Lavigne chiama «l’umile “rendiconto” di ciò che abbiamo fatto ogni giorno».

(2-fine)

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  1. Jean-Claude Lavigne, Un cammino ancora possibile? La vita religiosa nel nostro tempo, traduzione di L. Marino, Qiqajon-Comunità di Bose 2021 (edizione originale 2012).

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Quei mattini in cui tutto sembra possibile («Un cammino ancora possibile?» di Jean-Claude Lavigne, pt. 1/2)

Cammino ancora possibileLa routine, consolidata, prevede una scorsa alle prime pagine del libro appena acquistato in modo da poterne valutare l’«urgenza» nell’ordine di lettura, i due momenti essendo da tempo separati, ma in questo caso l’introduzione ha prodotto la decisione di procedere senza dilazioni. Sì, perché raramente mi è capitato di leggere un’introduzione tanto onesta, precisa e invitante come quella che il p. domenicano Jean-Claude Lavigne ha anteposto al suo Un cammino ancora possibile? La vita religiosa nel nostro tempo1. Il titolo italiano, che si deve all’Editore (quello originale infatti, derivato da un versetto dell’Apocalisse, è «Voici, je viens». La vocation religieuse) è a suo modo un’introduzione all’introduzione e aggiunge una tonalità per così dire ancora più attraente.

Ebbene, questa introduzione parla di felicità, della felicità non come contrario dell’infelicità, bensì della mancanza di senso; della felicità che deriva «da una vita [quella religiosa] alla quale possiamo dire “sì” perché ci permette di divenire quello che siamo in potenza e di costituirci come soggetti della nostra storia». Parlare di questa felicità è la vera motivazione del libro, prim’ancora che quella di illustrare e spiegare le forme e i modi, le luci e le ombre della vocazione religiosa; certo, di quello alla fine si tratta, ma lo spunto primario è il momento «in cui la felicità chiede di esprimersi a parole», di essere raccontata anche a costo di essere schernita e addirittura commiserata e scartata come pia illusione. Appartengo, per semplificare, alla schiera di coloro che p. Lavigne chiama i «disincantati», e mi avvicino con circospezione a concetti come essere in potenza o soggetti della propria storia, nondimeno trovo assai prezioso poter ascoltare quello che il p. Lavigne ha da dire: «Ho sentito l’urgenza di parlare di questa forma di vita, la mia, che per me si è incarnata nell’ordine domenicano. […] Ho nutrito il desiderio di condividerla – probabilmente con una certa dose di ingenuità e di vanità – e di dire che è possibile e feconda, una possibilità vitale per uomini e donne del nostro tempo». Il domenicano si rivolge ai “compagni di strada”, a quelli che “ci stanno pensando”, a chi è agli inizi o chi quegli inizi ormai lontani vuole ricordare, ma il suo discorso, pacato, disteso, ragionevolmente sereno richiede soltanto disponibilità di ascolto e umana curiosità.

Posta questa premessa non trascurabile, Lavigne suddivide la sua esplorazione dell’esperienza della vocazione – il richiamo alla «dimensione esperienziale» è fondamentale poiché «l’avventura di ciascuno è singolare e non esiste una dimensione standard» e si può attingere, semmai, a un patrimonio di storie «di migliaia di uomini e donne [che] nel corso della storia hanno fatto questa strana esperienza» – in tre grandi momenti: le «aperture», cioè il momento iniziale, in cui «si tratta di discernere una deviazione» e che può coincidere con la lettura di una parola di Dio che propone una improvvisa rivelazione di se stessi; con l’ascolto di una parola umana, cioè la parola di un altro, sia esso un amico, un parente, un religioso; con un incontro, con un luogo, una persona, una comunità.

Poi le «oscurità», cioè i momenti di crisi, di dubbio, di incertezza; e infine le «luci», cioè le conferme, le lente conquiste, gli approdi, «quei mattini in cui tutto sembra possibile». Poiché la vocazione, oltre a non passare «attraverso parole chiaramente percepite» (e mi piace che ciò venga ricordato), non è un evento istantaneo bollato col timbro della certezza, bensì una vicenda che in certa misura si sovrappone all’intera estensione della vita religiosa che si è scelta: si prende un’altra strada, quella evangelica (rispetto a quale sarebbe troppo lungo qui approfondire), e nel mentre la si percorre la si verifica in continuazione o si è costretti a verificarla in continuazione.

E se le aperture e le luci sono interessanti ai fini, se così si può dire, di conoscenza, quanto più da vicino ci toccano le oscurità?

(1-segue)

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Jean-Claude Lavigne, Un cammino ancora possibile? La vita religiosa nel nostro tempo, traduzione di L. Marino, Qiqajon-Comunità di Bose 2021 (edizione originale 2012).

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Duemilaottocentoventi pagine posson bastare, per ora (Schedine: Bernardo di Chiaravalle; Benedettini; Certosini)

SermoniAnnoLiturgico 2Bernardo di Chiaravalle, Sermoni per l’anno liturgico / 2, introduzione, traduzione e note di D. Pezzini, Città Nuova 2021. Non si può passare sotto silenzio che lo scorso settembre, con la pubblicazione del secondo tomo del terzo volume dedicato ai Sermoni per l’anno liturgico, si è conclusa l’edizione delle «Opere di San Bernardo», avviata nel 1984 con il sostegno dell’Abbazia di Chiaravalle milanese e per la cura di Ferruccio Gastaldelli. Altre 950 pagine di san Bernardo, con testo latino a fronte, fitte delle sue parole più quotidiane, se così si può dire, quelle che rivolgeva ai «suoi» monaci quando poteva rientrare nella pace di Clairvaux «con l’animo affaticato da folle umane diverse che cercano cose diverse». A riprova del giacimento reso disponibile, apro (quasi) a caso una pagina, la 611, e cito dal Sermone agli abati: «Questo mare vasto – nel quale, in ogni caso, è certo che viene indicato niente altro se non il mondo presente, amaro e fluttuante – è transitabile da tre generi di uomini perché lo attraversino, ognuno a proprio modo, per uscirne liberi. Questi tre sono Noè, Daniele e Giobbe: di questi il primo lo attraversa in nave, il secondo su un ponte, il terzo a guado».

LesBenedictinsLes Bénédictins. La Règle de saint Benoît, traduction de la Règle réalisée par les moines de l’abbaye Saint-Wandrille, sous la direction de Daniel-Odon Hurel, Bouquins-Robert Laffont 2020. Volume ricchissimo che dà la Regola nel testo latino con traduzione francese e un assai esteso commento spirituale e storico, opera di un plotone di monaci benedettini e studiosi e studiose – quasi una raccolta di brevi e non tanto brevi saggi dedicati a ogni capitolo. 1340 pagine arricchite da un’utile «Chronologie de la dynamique bénédictine» e da un’utilissima «bibliografia cronologica» della Regola che, oltre all’elenco in ordine cronologico delle edizioni a stampa della medesima (40 pagine, dall’edizione tedesca del 1485/1490 di Memmingen, a quella italiana del 2011 a cura dei benedettini dell’Abbazia Madonna della Scala di Noci), offrono soprattutto l’elenco, sempre cronologico, dei commenti alla Regola, sempre a stampa (30 pagine scarse, dal commento di Juan de Torquemada, zio di quel Torquemada, stampato a Parigi nel 1491-94, a quello dottissimo di Aquinata Bockmann, in tre volumi, stampato a Parigi – toh – nel 2018 dalle Editions du Cerf) e l’elenco delle costituzioni degli ordini e delle congregazioni che «riconoscono Benedetto come patriarca» (altre 30 pagine affascinanti e utilissime di storia benedettina). Pur inserendosi nella lunga tradizione dei commenti, questo volume «segna un doppio scarto: non è firmato da un religioso o da un gruppo di monaci, ma è un’opera collettiva che riunisce docenti universitari e alcuni religiosi particolarmente competenti. Non è rivolto ai religiosi (senza che sia proibito loro di leggerlo!), bensì al pubblico il più vasto possibile, e per far ciò tenta una sintesi di undici secoli di riflessione sulla Regola con la percezione contemporanea del monachesimo cristiano» (dall’Introduzione di D.-O. Hurel).

 

AllaScuolaDelSilenzioAlla scuola del silenzio. Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, prefazione di A. Matteo, Rubbettino 2021. Graditissima nuova edizione, con titolo up to date, di un’antologia già apparsa nel 1987 dalle Paoline (e presentata allora dal cardinal Martini) e che inaugura la promettente collana dell’editore calabrese «Amore e silenzio. Voci», diretta da A. Cavallaro, T. Ceravolo e I. Iannizzotto. Il titolo parla da solo, il florilegio è organizzato per grandi aree tematiche, gli autori spaziano lungo gli oltre novecento anni di vita dell’Ordine e il volume (di 526 pagine) è corredato da estesi profili biografici e da un indice analitico degli argomenti singolare per precisione del dettaglio. Se cerco, ad esempio, «linguaggio», trovo che «la menzogna è il vuoto e il l. del nulla» e vengo rimandato a queste parole di Augustin Guillerand (dai suoi Ecrits spirituels, raccolti dopo la morte avvenuta nel 1945): «Si confonde il silenzio dell’Essere col silenzio del nulla. Ma il nulla non sa né parlare né tacere; sa soltanto agitarsi e mascherare, con dei movimenti superficiali, il vuoto che è in lui. Parole delle labbra alle quali non corrisponde alcun pensiero, atteggiamenti del corpo, mimica del volto che non traducono alcuna realtà o mentono realmente: ecco il linguaggio del nulla. Ed è per questo che lo moltiplica. Ci vogliono molte parole per non dire nulla o per dire ciò che non si pensa».

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Entrate / Uscite (Schedine: Bonato; Cernuzio)

IntroduzioneMonachesimoVincenzo Bonato, Introduzione al monachesimo, Nerbini 2021. L’Introduzione che il monaco camaldolese, studioso di teologia monastica e docente di Spiritualità ha pubblicato nella meritoria collana di «Orizzonti monastici» va intesa proprio come propedeutica all’idea di un reale «ingresso» in un monastero. Il testo infatti è organizzato in forma di lettera a un giovane che si senta attratto da una scelta di vita tanto lineare, all’apparenza, quanto complessa e non priva di pericoli nella sua concretezza, e si propone di illustrarne le caratteristiche: a cosa si va incontro, cosa ci si può aspettare, quali ne sono i fondamenti, i momenti costitutivi e quale ne è il significato autentico. Può essere la professione monastica la risposta a quel vago bisogno di spiritualità – termine sempre più difficile da arginare – che si attribuisce a molti giovani? Oltre a un meditato riepilogo dei principali aspetti della scelta di vita consacrata, prevedibili, in fondo, e non nuovi per chi frequenta la letteratura monastica contemporanea, e a una breve rassegna dei suoi «strumenti» primari, l’autore pone spesso l’accento sul carattere personale della vicenda o, come si tende a dire oggi, sulla sua dimensione esperienziale. Senza tradire la propria tradizione (o anzi, appunto, tradendola etimologicamente), la forza di attrazione della vita monastica non può che venire da monaci e monache in carne e ossa che mostrano agli aspiranti il senso, e gli esiti, di una scelta attraverso la loro testimonianza, il loro stile di vita abbracciato, amato e condiviso. La risposta a quel bisogno, la risposta stessa alla chiamata, quindi non può essere un’elaborazione concettuale, si potrebbe quasi dire che prima ancora di manifestarsi pienamente nella fede («Non è mai facile capire se la fede c’è o non c’è») è un «incontro personale», con il Signore anzitutto (tramite la Scrittura), ma anche con un individuo, con una comunità di individui. Individui che, all’inizio, possono vestire i panni di educatori, formatori, direttori spirituali, di maestri (la nostalgia dei quali oggi forse va di pari passo con tutte le difficoltà e anche le storture che possono sorgere da questo tipo di rapporti). Ecco allora che «il monastero presenta il vantaggio di offrirsi come luogo di vita e d’esperienza, in continuità. Perdura nel tempo, perché è animato da persone sagge, miti, sapienti più che dotte, pacificate nel cuore. Non è un luogo dove vengono elaborate teorie astratte, ma dove si manifesta un particolare stile di vita. Nella comunità monastica, lo stile di vita vale più di qualsiasi offerta culturale o catechetica».

VeloDelSilenzioQueste parole, cui anche il non credente presta ascolto e rispetto, risuonano ancora quando si chiude l’ultima pagina del libro di Salvatore Cernuzio, Il velo del silenzio. Abusi, violenze, frustrazioni nella vita religiosa femminile, San Paolo 2021. Di questa materia può parlare solo chi ne ha esperienza diretta, in quanto vittima, testimone o esperto a vario titolo, quindi mi limito ad annotare che questo libro esiste e raccoglie undici testimonianze anonime di religiose (lo specifico femminile è cruciale) che hanno sofferto di abusi, principalmente, salvo un caso, di potere e di coscienza, e hanno lasciato le comunità in cui avevano scelto di consacrare la loro esistenza. Le testimonianze sono accompagnate da un «dispiegamento di forze» assai eloquente: una prefazione di Nathalie Becquart, saveriana, sottosegretaria del Sinodo dei Vescovi («Dobbiamo ascoltarle [queste testimonianze], sentirle e prendere coscienza che la vita consacrata nella sua diversità, come altre realtà ecclesiali, può generare sia il meglio che il peggio»), un’introduzione del gesuita Giovanni Cucci, che all’argomento aveva dedicato un importante articolo su «La Civiltà Cattolica» nel settembre 2020 («Va lodato e incoraggiato chi ha deciso, non senza sofferenze e resistenze, di rompere il muro del silenzio, che è di fatto il canale privilegiato di diffusione del male»), un’intervista allo psichiatra e psicoterapeuta Tonino Cantelmi («Direi che nelle congregazioni maschili può prevalere una forma di individualismo controvocazionale, dove il conflitto è celato dal rispetto tacito dei reciproci spazi; in quelle femminili è più probabile che si nascondano forme sommerse di sofferenza e solitudini atroci in apparenti comunità attive») e un intervento del canonista Giorgio Giovanelli sugli aspetti teologici e giuridici dell’obbedienza («Se tutti i cristiani sono tenuti all’obbedienza alla Parola di Dio, l’obbedienza del religioso passa attraverso precise mediazioni umane»).

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Un ineludibile e vincolante rapporto con l’altro (Monachesimo di Gaza e direzione spirituale, pt. 2/3)

(la prima parte è qui)

NecessitaDelConsiglioMolti sono i punti decisivi che emergono dall’insegnamento dei grandi Anziani o Reclusi del monachesimo di Gaza, Barsanufio e Giovanni, pur nel quadro di un’impostazione individuale dei problemi che di volta in volta vengono proposti; anzi, forse è proprio in ragione di questo «quadro» – la risposta fornita da un singolo individuo, per quanto in posizione avanzata sulla strada verso la… «perfezione», alla domanda posta da un altro singolo individuo – che l’insegnamento affronta snodi cruciali, con quella che si potrebbe chiamare «ricaduta collettiva»: l’attuazione di questi comportamenti spingendo al riconoscimento della sostanza dialogica dell’essere al mondo.

Si diceva dell’inaggirabile necessità del consiglio, ad esempio, ecco, «per Barsanufio e Giovanni di Gaza», sottolinea Lorenzo Perrone1, «il compimento della vocazione monastica si gioca proprio in questo rapporto con l’autorità e il consiglio dei padri, che mette in luce il requisito indispensabile per ogni itinerario di perfezione – l’umiltà – e al tempo stesso traduce l’adesione alla carità evangelica nella forma di un ineludibile e vincolante rapporto con l’altro». Il corsivo, mio, apre, secondo me, il discorso anche a una dimensione che non sia quella dell’itinerario di perfezione, ma si contenti di un obiettivo assai più modesto di… (che parola mettere qui?)… decenza. Non si può far da soli; anzi, l’autarchia è «insidia demoniaca». «La pseudoscienza», avverte Giovanni, «consiste nel fidarsi del proprio pensiero che una cosa sta così: chi vuole esserne liberato, non si fidi del proprio pensiero ma interroghi un anziano.» Non solo, perché «se l’anziano risponde e la sua risposta corrisponde a quello che pensava il fratello, nemmeno allora deve credere al proprio pensiero, ma dire: I demoni si sono beffati di me…» per farmi credere di essere sufficiente a me stesso. In questa alternativa inconciliabile «sta e cade per i due maestri di Gaza la scelta monastica, e la stessa professione di cristianesimo»: orgoglio o umiltà, far da sé o affidarsi, contare sulle proprie forze o «aggrapparsi al sostegno di un fratello, pur sapendo che anche questi partecipa dell’umana debolezza».

C’è forse scelta più «fuori moda» di questa, più impervia? Quante volte sono stato e sono capace di ammettere di non capire, di non vedere correttamente, di non essere in grado di distinguere «che cosa è giusto per me»? Quante volte sono stato e sono disposto al «taglio della volontà propria»? E alla luce di cosa ho rivendicato le mie scelte? (Quale sia poi il «campo» entro il quale si esercitino effettivamente queste scelte, se sia un campo di libertà o di pseudolibertà, è questione cui non sono in grado di rispondere, essendo dentro tale campo.)

Rimanendo per il momento al di qua dell’alternativa, uno dei primi requisiti in vista di quel taglio «consiste nello spezzare il circuito di un’interiorità esclusiva e ripiegata su se stessa per aprirla all’osservazione e al controllo di un’istanza esterna» (ogni riferimento all’istanza psicoanalitica di qualche secolo successiva non è casuale). Al padre spirituale occorre aprirsi completamente, senza la minima reticenza, in un rapporto di intimità che «è una palese compensazione per ciò che si presenta paradossalmente come un programma di annichilimento di sé» (Perrone). La rinuncia di sé, praticata nell’apertura al padre spirituale (all’altro tout court?), «è in primo luogo l’attuazione e il mantenimento di un atteggiamento amorevole verso il proprio prossimo». Perché il prossimo non è colui che noi dobbiamo aiutare, bensì colui che può aiutare noi. Troppo difficile, troppo.

Senza contare che nell’insegnamento dei padri di Gaza questa condotta, in sostanza, assume una dimensione globale: a essa bisogna tendere sempre. Mai fare la propria volontà, bensì «sia fatta sempre la Tua volontà». Ben vengano allora le domande, incalzanti, che un altro anziano rivolge a Giovanni: «Come posso sapere, padre, in cella, se recido la mia volontà, e ugualmente quando sono con gli uomini? E cos’è la volontà carnale? E la volontà che viene dai demoni, sotto apparenza di bene? E la volontà di Dio?»

Anche il professor Perrone si associa: «“Come so che sto facendo la volontà di Dio invece della mia?” Questa è senz’altro la domanda cruciale».

(2-segue)

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  1. Lorenzo Perrone, La necessità del consiglio. Studi sul monachesimo di Gaza e la direzione spirituale, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2021.

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Perché piangi? (Monachesimo di Gaza e direzione spirituale, pt. 1/3)

NecessitaDelConsiglio«Il monachesimo di Gaza è ormai scomparso da tempo immemorabile», scrive Lorenzo Perrone, docente di Storia del Cristianesimo, e di discipline consimili, e curatore di importanti edizioni di scrittori cristiani delle origini, «ma di una “scuola di cristianesimo” di tal fatta c’è sempre, credo, molto da imparare ancora ai giorni nostri.» Non potrei essere più d’accordo, anche laddove mi azzardassi a sostituire «scuola di cristianesimo» con «scuola di umanità». Se è vero che non si può prescindere da un contesto di fede per comprendere correttamente le sue figure più rappresentative, Barsanufio e Giovanni di Gaza (senza dimenticare Doroteo, sempre di Gaza), nondimeno la «sapienza psicologica» dei due Anziani può, credo, essere di grande ispirazione anche al di fuori di quel contesto. Diciamo, forse meglio, che io, pur sprovvisto di fede, ho trovato di clamoroso interesse tale sapienza, tramandata dall’Epistolario dei due «reclusi» e alla scoperta della quale mi stanno accompagnando i saggi che il professor Perrone ha recentemente raccolto in volume1.

Lo stesso professore, peraltro, ribadisce che «le voci dei monaci di Gaza sono a mio giudizio tra quelle che meglio hanno interpretato, al di là delle stesse cerchie monastiche a loro più affini e vicine, la stessa “quintessenza” del messaggio di Gesù Cristo». Ed è molto importante sottolineare le «voci» poiché, grazie alla loro struttura a domanda e risposta, dalle lettere di Barsanufio e Giovanni è come se ci giungesse proprio la loro voce, intenta a rispondere a centinaia di quesiti di varia natura posti da una schiera di persone di varia estrazione: una perfetta rappresentazione, una rappresentazione vivente, di quella dimensione tanto complicata, rischiosa e in qualche misura tutt’oggi urgente che è la direzione spirituale.

«Padre, che cosa devo fare?» Quand’anche volessimo, com’è giusto, modificare l’appello iniziale – padre, madre –, l’accento fondamentale resterebbe sull’eterno, necessario, inaggirabile (a meno di usare potenti anestetici) «che fare?». Domanda che rimanda, appunto, alla «necessità del consiglio», perché, come dice Barsanufio basandosi sulla Bibbia, «non c’è nessuno che non abbia bisogno di un consigliere, se non Dio che ha creato la sapienza». Una negazione dell’autosufficienza dell’individuo che porta, per così dire, dritti nel Novecento e oltre, quando, in assenza di Dio, o nell’ombra del suo allontanamento, il fondamento del «consiglio» diventa un problema che sono in grado soltanto di nominare. Mi limito qui a osservare che lo sbriciolamento del fondamento del consiglio non ne intacca tuttavia la necessità.

Prima di provare ad addentrarmi nei testi che illustrano la questione, mi preme tuttavia sottolineare il tono mite e dolce che pervade le testimonianze che più da vicino ci raccontano le dinamiche della direzione spirituale nell’esperienza dei monaci di Gaza. E per farlo mi appoggio a un episodio tratto dalla Vita di abba Dositeo di Doroteo di Gaza2 (sulla quale dovrò poi tornare estesamente).

Affidato alle cure di Doroteo, Dositeo è un giovane novizio pieno di entusiasmo che esegue in letizia tutto quello che il suo padre spirituale gli dice di fare, in particolare nel servizio di infermeria. Qualche volta però, essendo umano, perde la pazienza e magari sbotta con uno dei malati. Se ne pente all’istante e si chiude nella sua cella a piangere. Gli altri confratelli provano a consolarlo, inutilmente, e allora chiamano Doroteo, che lo raggiunge «e gli chiedeva: “Che c’è, Dositeo? Che cos’hai? Perché piangi?”. E Dositeo rispondeva: “Perdonami, carissimo! Sono andato in collera e ho trattato male un mio fratello”.» Doroteo lo rimprovera: non lo sai che se fai del male a un fratello lo fai a Cristo? Dositeo continua a piangere, in silenzio, ma «quando vedeva che aveva pianto abbastanza, Doroteo gli diceva: “Dio ti perdoni. Su, da questo momento ricominciamo. Impegniamoci per il futuro e Dio ci aiuterà”».

Ecco, a me sembra che il senso di tutto stia in quel «perché piangi?», in quel «pianto abbastanza» e infine in quel «su, ricominciamo».

(1-segue)

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  1. Lorenzo Perrone, La necessità del consiglio. Studi sul monachesimo di Gaza e la direzione spirituale, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2021.
  2. Doroteo di Gaza, Vita di abba Dositeo, 6, in Comunione con Dio e con gli uomini, a cura di Lisa Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2014, pp. 68-69.

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