«Quattro piccole persone che nel mondo non contano nulla»: le clarisse di Cademario

Vorrei avere il tempo – e non è un luogo comune – per seguire il più possibile, almeno sulla carta, le vicende di alcune comunità monastiche attraverso i vari documenti che lasciano in giro e che ormai non è difficile reperire: articoli, interviste, blog, opuscoli e piccole pubblicazioni. Lo dico perché quando ci riesco lo trovo allo stesso tempo molto istruttivo e, sì, molto riposante.

Il maggio scorso, ad esempio, le clarisse di Cademario (Canton Ticino) hanno celebrato il venticinquesimo anniversario della fondazione del loro monastero, e ovviamente la cosa ha lasciato diverse tracce scritte, a cominciare da un articolo, semplice e bello, firmato da loro stesse e apparso sull’ultimo numero di «Forma Sororum»1. «Quest’anno abbiamo la grazia di festeggiare un quarto di secolo», scrivono le monache, «il tempo appena di un respiro, ma a noi sembra di aver percorso già un lungo tratto, sia per l’intensità della vita accaduta sia per quel continuo – ma essenziale! – dirsi e ridirsi il significato di una presenza, e quindi di una vocazione»: quanto mi pare tipica, quell’insistenza, di una «professione», quella monastica, che non smette mai, a differenza di quasi tutte le altre, di interrogare se stessa.

L’articolo ripercorre la vicenda del monastero, risalendo al primissimo impulso dato dall’allora vescovo di Lugano, Eugenio Corecco, del quale vengono citate due espressioni che mi hanno incuriosito. Anzitutto le parole rivolte nel 1986 alla badessa del monastero di S. Maria di Monteluce a Perugia, per sollecitare l’invio in Svizzera di un’avanguardia di monache e che contengono una singolare ammissione di pragmatismo provvidenziale: «Penso che la verifica della volontà di Dio scaturisce dal riuscire a realizzare il progetto stesso. Se si riesce a realizzarlo, rispettando tutti i passaggi che le circostanze e le persone impongono, allora non dobbiamo dubitare di noi stessi»; e poi una frase pronunciata nel 1992, in occasione dell’inaugurazione: «Non stiamo ponendo la prima pietra di un monumento, ma di una storia di persone, una storia che ci porta verso l’eternità. Quattro piccole persone che nel mondo non contano nulla iniziano un cammino di salvezza per tutti noi»: parole che sembrano echeggiare quelle di m. Cànopi che citavo in un appunto precedente: «È certo infatti che fino alla fine del mondo ci sarà bisogno di piccoli uomini e piccole donne senza alcuna importanza, ma che sappiano stare là davanti al Signore»2.

Dopo una prima fase, non brevissima, di assestamento, si giunge all’erezione canonica del monastero, nel giugno del 2006, passo necessario per procedere alla ristrutturazione e all’ampliamento della sede originaria, una villa messa a disposizione dalle sorelle cappuccine e poi donata dalla diocesi. Mentre le monache si trasferiscono temporaneamente in città, a Lugano, presso il monastero di S. Giuseppe lasciato vuoto da una comunità di cappuccine (sempre loro), si apre la «fase del cantiere», che è molto interessante ripercorrere attraverso le tesimonianze video disponibili (qui ad esempio si possono ascoltare s. Miriam e s. Giuseppina).

La storia del monastero non è stata priva di «difficoltà varie e numerose», come ammettono con estrema discrezione le monache stesse3, e come si può trovare accennato in altre testimonianze. Qualcosa traspare, ad esempio, nelle parole dell’allora parroco di Cademario, d. Pierangelo Regazzi, qui intervistato in occasione del rientro della comunità (oggi composta da nove sorelle) nel nuovo edificio nel 20124.

Di articolo in testimonianza, si potrebbe andare avanti a lungo, e ognuno può farlo se lo desidera, per avere almeno un’idea, seppur indiretta, di monachesimo in atto: «Più volte in questi anni abbiamo constatato con stupore», riflettono le monache, «come le difficoltà ci hanno rivelato una comunione vera tra noi, mentre avrebbero potuto dividerci, oppure far morire la piccola pianta. Più volte siamo dovute ritornare con umiltà sulle scelte fatte… Più volte abbiamo dovuto ricominciare con lavori già fatti o impostati, più volte ci siamo interrogate sul nostro essere qui… La pedagogia del Signore ci continua ad educare ad un dinamismo del cuore, dove nulla sembra mai essere definitivo e sicuro, ma tutto chiede di essere continuamente accolto, guardato e amato».

Da qualunque posizione si guardi a questa letizia, non credo se ne possa dubitare.

______

  1. Le clarisse di Cademario, 25 anni di presenza a Cademario, in «Forma Sororum» 55 (2018), 1 (gennaio-giugno), pp. 43-51.
  2. Anna Maria Cànopi, L’amore che chiama. Vocazione e vita monastica, prefazione di G. Savagnone, EDB 2017, vedi qui.
  3. Naturalmente anche di natura economica. Sul pieghevole diffuso per sollecitare le donazioni si può leggere ad esempio: « La costruzione di un monastero è una grossa sfida anche dal punto di vista finanziario: per questo, mentre vi ringraziamo di cuore per gli aiuti giunti sinora, continuiamo a confidare nella vostra generosità e in quella di nuovi benefattori, anche per superare alcune sopravvenute e inattese complicazioni finanziarie, che al momento non consentono il completamento di alcuni lavori».
  4. Nel ricordo che il sacerdote dedica al suo vescovo, mons. Corecco, si può leggere: «Tra le istituzioni che ha accolto in diocesi c’è stata pure la comunità delle Clarisse di Cademario: a quei tempi ero proprio io il parroco di quella parrocchia. Le cose non sono andate subito lisce. Ma alla fine la presenza di queste sorelle è stata “provvidenziale”», in «Bollettino dell’Associazione internazionale amici di Eugenio Corecco, Vescovo di Lugano» XX, 11 (settembre 2016), p. 96.

 

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