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Monachesimo 2.0 (Dice il monaco; XLII)

Dice Alessandro Barban, priore generale della Congregazione camaldolese, nel 2014:

Per il monachesimo contemporaneo è importante parlare il linguaggio degli uomini di oggi, e conoscere ciò che sta avvenendo nella cultura e nella scienza. Non in modo dilettantesco, ma studiando seriamente. Nella tradizione monastica non c’è stata solo la specificità di un approfondimento di tipo spirituale, ma è stata sempre coltivata all’interno di una notevole ricerca culturale. Quando il monachesimo si è impoverito culturalmente, si è anche impoverito spiritualmente. Quando il monachesimo ha interpretato la fuga mundi in senso storico come separazione dal mondo, ha sempre rischiato l’irrilevanza, l’insignificanza e l’evasione. Quando invece la ricerca culturale è stata forte, se n’è arricchito anche lo spirito. Pertanto, siamo chiamati in questo tempo di svolta a non rimanere fermi sugli allori gloriosi del passato, ma a intraprendere un incontro e una conoscenza più diretta con la rete, con le università e il laboratori di ricerca.

Alessandro Barban e Gianni Di Santo, Il vento soffia dove vuole. Confessioni di un monaco, Rubbettino 2014, p. 73.

 

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Arcangelo Spina, monaco poeta (uno dei tanti) (Who’s Who, XII)

RimeSpiritualiPartito per la tangente durante la lettura di un articolo di «Benedictina», ho inseguito, per quanto reso possibile dalle risorse online, la figura del napoletano Arcangelo Spina, monaco camaldolese della congregazione di Monte Corona, «fiorito» agli inizi del XVII secolo.

Il p. Spina emerge dall’oblio per le sue qualità di poeta e rimatore. Lo cita il Croce nei suoi Teatri di Napoli, del 1891, riportando la definizione di «poeta insigne, come provano le sue rime stampate» e ricordando che il 4 marzo 1631 la sua commedia l’Incostante venne messa in scena in casa di Ciommo Albertino, principe di Cimitile, e replicata tempo dopo a casa del principe di Bisignano, con tale successo che «si dové “portarla a palazzo”, innanzi al duca di Alcalà».

Ma è soprattutto ricordato, appunto, per le «rime stampate», cioè per Le rime spirituali del P. F. Arcangelo Spina eremita camaldolese dedicate all’Illustriss. e R.mo signor cardinale Scipion Borghese, pubblicate a Napoli nel 1616, che «ben meritavano questo onore, essendo elleno d’ottimo carattere ed esenti dalla corruttela che già inondava in quell’età la Poesia»1. L’iniziativa editoriale si deve al vescovo di Vico Teatino Girolamo Sariano, che nella presentazione al cardinale fa un vago accenno a un vincolo di parentela che avrebbe col monaco poeta («lo legame del sangue che mi stringe all’autore») e al fatto che la composizione dei testi sarebbe piuttosto antica.

Nell’avvertenza al lettore, poi, lo stampatore (Gio. Domenico Roncagliolo) attribuisce al p. Spina il merito di aver portato nella lirica le «cose divine», «che più che altre le son proprie», ricorda che i brevi argomenti che precedono le composizioni non sono di mano dell’autore e che nessun ordine particolare è stato seguito nella disposizione dei testi, e conclude così: «E per compimento convien dirti che, leggendole, in esse guarderai non l’autore (il quale non ha inteso dipingervi se stesso), ma più tosto un’anima così descritta in universale, con quegli avvenimenti che sogliono agli amanti di Dio accadere; & in tal guisa ti potranno essere come uno specchio, in cui, se ben miri, scorgerai anche te medesimo. Sta sano».

Ho letto solo alcune poesie, mentre dei 236 sonetti, dei 109 madrigali e delle 14 canzoni che compongono il canzoniere del p. Spina, ho letto quasi tutti gli argomenti, perché sono un sottogenere letterario molto preciso e divertente e dal gustoso sapore romanzesco: Nuovi lumi nel conoscimento di se stesso (sonetto 54), Temeraria ingordigia di naviganti (sonetto 80), S. Mauro corre sopra il lago in aiuto di S. Placido (sonetto 101), S’interna in Dio (canzone 7), Alla mano, che diede la guanciata a Christo (sonetto 155), Mare del sommo bene (sonetto 194), Spina del signore miracolosa in Vinegia (madrigale 99), Si smarrisce nella contemplatione (sonetto 214), eccetera eccetera.

Ne ho lette poche, dicevo, di rime, ma una mi è rimasta impressa: è il sonetto 22, che reca come argomento l’assai familiare Quiete notturna da vani pensieri turbata:

Già steso ha l’ali brune, e l’hemisfero

Cinto l’Ombra maggior, ch’uscita è fuori

De’ chiusi lidi, e sparso ha di splendori

Stellanti il manto suo lucido e nero:

Hora opportuna al vago mio pensiero,

Che sciolto voli al ciel, che quivi adori

La prima luce, e fra’ celesti chori

Si spatij amando, e miri fiso il vero.

Deh qual silentio, e qual riposo, e pace

Spargon l’hore per tutto: hor taccia il mondo

Dentro il pensier, come di fuori ei tace.

Ma sento pur, che nasce dal profondo

Del cor schiera d’immagini fallace:

Che penso? come fuggo? ove m’ascondo?

______

  1. G.M Crescimbeni, L’istoria della volgar poesia, Parma 1714.

 

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«A meno che, ripeto» (Dice il monaco, XXXVIII)

Dice Paolo Giustiniani (1476-1528), camaldolese:

No, la vita del solitario non è, come credono taluni, inattiva e oziosa, bensì più di ogni altro genere di vita, attiva e laboriosa, a meno che non si pretenda che leggere, studiare, comporre, scrivere, esaminarsi, regolare gli affari della propria anima, riandare nella vita passata, ordinare diligentemente il presente, prevedere prudentemente l’avvenire, pentirsi della colpe passate, combattere le passioni e i desideri disordinati, armarsi contro le occasioni prossime di turbamento e di caduta prima che esse si presentino, pensare alla morte e mettersela davanti agli occhi affinché essa non ci colga all’improvviso, meditare le realtà umane e divine degne di tener occupato senza posa uno spirito elevato, e ciò non a caso e come in sogno, ma con ordine e applicazione; lodare frequentemente con la nostra voce giorno e notte il Dio creatore con salmi, cantici e inni; ringraziarlo di tutti i suoi benefici; con accenti ancor più vivi ed efficaci elevarsi grazie alla preghiera mentale verso la divina Maestà per quanto possibile a una umana creatura; uscire, per così dire, da questo mondo per conversare con gli spiriti beati, con i santi angeli e con il loro e il nostro divino Creatore, per quanto ci è dato di poterlo fare in questa vita mortale; contemplare in qualche maniera le ineffabili e inesprimibili perfezioni di Dio come in uno specchio e per analogia; eccitare ed esortare con la parola a una tale vita e a tali esercizi coloro che sono presenti, e con lo scritto coloro che sono assenti; domare l’orgoglio di questa vita e raffrenare i desideri della carne con vestiti poveri e grossolani, con un cibo vile e parco, con lunghe veglie, con occupazioni penose e umilianti; insegnare al proprio corpo a essere sottomesso e ubbidiente in tutto all’anima e alla ragione; a meno che non si pretenda, ripeto, che tutti questi esercizi del solitario, e tanti altri simili, siano inerzia, noia, sonnolenza.

È necessario ammettere che la vita solitaria, più di ogni altro stato, è attiva e laboriosa, non perché essa si occupi di opere esteriori e corporali o di affari di questo mondo, no, ma in esercizi più nobili e più fruttuosi, interiori e spirituali, più convenienti a quella parte di noi che è immortale.

Citato in Jean Leclercq, Il richiamo dell’eremo. La dottrina del beato Paolo Giustiniani (1953), prefazione di Th. Merton, presentazione di dom P. Fassera, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2005, pp. 74-5.

 

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Zombie Hermitage (Dice il monaco, XII)

Dice Rodolfo II-III, camaldolese (1180 ca.):

Segue infine [tra le virtù dei solitari]  la meditazione silenziosa, quando si uniscono indissolubilmente queste due cose: la regola del tacere e la vigile occupazione del meditare; nessuna delle due senza l’altra basta alla salvezza. Il silenzio senza meditazione, infatti, è morte ed è come la sepoltura di un uomo vivo; la meditazione senza silenzio è inefficace ed è come l’agitarsi di un uomo ormai sepolto.

Libro della regola eremitica, 44, 1-2, in Privilegio d’amore. Fonti camaldolesi, testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie a cura di C. Falchini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2007, p. 302.

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La visione di un monaco

La verità? «La chiesa non inventa la verità, ma la custodisce.» La Congregazione per la dottrina della fede? «Diciamolo sinceramente, deve andare a farsi friggere.» La democrazia nella Chiesa? «La chiesa deve essere non democratica, ma superdemocratica.» Il celibato ecclesiastico? «Queste sono cose transitorie, sono cose determinate nel Medioevo, quando per un principio di potere mondano si imposero le leggi del monacato al clero diocesano… L’amore non è celibe né coniugato. Dio non è celibe né sposato.» Le encicliche? «Le encicliche chilometriche non le legge nessuno, sono compilate da mani di segreterie, non ce ne facciamo niente.» L’inferno? «Sono problemi da accantonare. Non ci sono nel vangelo, non li conosce la chiesa apostolica.»

Occorre un certo coraggio per esprimere queste opinioni, dall’interno della Chiesa. Ad averle pronunciate, infatti, è Benedetto Calati, «il monaco camaldolese più importante del Novecento e tra i più grandi che il millenario Ordine di san Romualdo annoveri nelle sue file» (che per me è una «scoperta» recente). In un lungo colloquio con Raffaele Luise, avvenuto nell’estate del 2000, pochi mesi prima della morte, diciamo che Calati ne ha un po’ per tutti. E se da un lato mette un po’ di tristezza questa conversazione «ultima», quasi si fosse voluto sollecitare l’anziano monaco a ripassare il catalogo delle sue «eresie» prima della fine, dall’altro non può non colpire questa voce che unisce a un’indiscutibile fermezza di fede, un atteggiamento critico senza sconti verso certe forme dell’istituzione ecclesiastica.

E anche quando viene a parlare del monachesimo nel mondo contemporaneo le sorprese non mancano. Lui che tanto ha fatto dentro e fuori il monastero, aprendo soprattutto le porte e facendo sì che il mondo fluisse fin quasi alla soglia delle casette di Camaldoli: «Quando a sedici anni fuggii a Camaldoli lasciando il convento dei carmelitani di Mesagne, lo feci per abbracciare la vera vita contemplativa che il maestro dei novizi mi aveva detto che quassù si praticava sine glossa e senza accomodamenti. Ebbene, anche allora… sentivo dentro di me un senso di orrore per ogni espressione di fuga cosiddetta spirituale, ma sempre tanto anti-evangelica». Il rifiuto del mondo, nient’altro che un «gioco letterario», è oggi improponibile, ma in fondo, sembra dire Calati, lo è sempre stato: «Iddio, secondo l’aforisma della tradizione rabbinica, si nasconde infine il sabato per far posto all’uomo, perché prenda possesso del cosmo».

Anche la lettura dei tre «consigli» è forte. La castità, liberamente scelta, è apertura a tutto e a tutti («Confesso di aver sempre avuto il timore che il celibato giunga come un disimpegno dalla storia che noi viviamo, che si presti come logica di potere in chi presiede la comunità»); l’obbedienza non è altro che obbedienza all’amore, che deve prevalere sulla legge, sull’ascesi e sul culto; la povertà, inserita nel contesto della globalizzazione e connessa con il lavoro, comporta per i monaci l’alleanza senza esitazione con gli esclusi. Sì, proprio il lavoro, che apre all’orizzonte concreto della storia: «Ecco allora che la scelta di un lavoro fuori del monastero rimane una via su cui bisogna riflettere e lungo la quale inoltrarsi per un aggancio concreto con il mondo moderno».

E i non credenti, gli atei? «I fratelli che credono e che non credono: non c’è differenza!»

Raffaele Luise, La visione di un monaco. Il futuro della fede e della chiesa nel colloquio con Benedetto Calati, Cittadella Editrice 2000.

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Corpi d’élite

Credere e obbedire, si è detto, ma anche combattere. Il «combattimento spirituale» è una delle attività fondamentali del monaco, sin dai tempi dei Padri del deserto, contro se stesso, contro il mondo, contro le distrazioni, contro le tentazioni, contro il serpente antico dell’Apocalisse. È un tema costante, che, a partire dalla medesima radice, ha conosciuto nei secoli declinazioni sempre rinnovate, ha ispirato pagine di grande potenza e che, ovviamente, non conosco nella sua interezza e complessità. Sono sempre colpito, tuttavia, dal fiorire ininterrotto di immagini militaresche nella letteratura monastica, e osservo con una punta di apprensione questo esercito di uomini e donne che camminano «armati» sulla via della perfezione, votati alla «santissima milizia».

Prima e dopo la complicata parentesi dei templari, e degli ordini cavallereschi, di questo esercito gli eremiti sono i soldati scelti, le forze speciali, i corpi d’élite. E consapevoli di esserlo, tanto che qualche volta lo hanno anche scritto, come nel Prologo del Libro della regola eremitica, uno dei testi fondativi della spiritualità camaldolese, redatto intorno al 1107. «Sebbene molte siano le forme di vita religiosa con le quali si serve l’unico Dio, si milita per l’unico re e si cerca l’unica vita […], è comunque cosa certa che, in particolare, la forma di vita solitaria tiene il primato. Questa, infatti, è la vita che vince il mondo, reprime la carne, sconfigge i demoni, cancella i peccati, tiene a freno i vizi e i desideri carnali che fanno guerra all’anima.»

L’eremita è la pattuglia in avanscoperta, è l’avanguardia, è l’ardito cui viene affidata la missione più pericolosa, è l’eroe capace di affrontare il rischio più alto, e lo fa, oltre che per un carisma particolare, in seguito a un addestramento specifico che lo prepara alle condizioni estreme, «come un soldato rivestito dell’armatura che, trovandosi, in mezzo alla guerra, prepara lo scudo contro i giavellotti». Non è per tutti l’eremo, come ricorda un altro testo camaldolese, le Costituzioni di Rodolfo, del 1080, non si può puntare direttamente alla vetta senza passare prima per le pendici. E bisogna guardarsi dal vestire una divisa di cui non si è in grado di portare il peso: «“Venire all’eremo, infatti, è somma perfezione, non vivere rettamente nell’eremo è somma dannazione”. Non ignoriamo, infatti, fratello, quale gran danno subisci se vieni detto eremita e non ne pratichi la vita. Se, infatti, vuoi [esserlo], adesso è il momento di combattere, di resistere, di trionfare

A voler insistere su questa analogia, la fondazione di Camaldoli, opera del grande Romualdo, rappresenta un caso esemplare. Oltre all’eremo vero proprio, cinque celle assegnate ad altrettanti fratelli, con la regola più semplice di tutte: digiunare, tacere e rimanere nella cella, Romualdo infatti fa costruire una chiesa presso l’ospizio di Fonte Buono, poco distante, che si trasforma poi in un cenobio «di appoggio» all’eremo. E compito di questo cenobio, come si legge sempre nelle Costituzioni, è anche quello di preparare «i fratelli che fossero giunti per vivere questa nostra vita: vale a dire che nel suddetto ospizio facessimo sì che i fratelli […] praticassero perfettamente l’osservanza regolare e il rigore secondo come comanda il beato Benedetto», prima di andare, «così istruiti» nell’ordine e nella disciplina, nei digiuni e in tutte le altre pratiche ascetiche, all’eremo. Cioè in prima linea.

Ed è interessante notare come il cenobio sia al tempo stesso campo di addestramento e retrovia: «E quando essi [gli eremiti], come succede spesso… cadono in qualche stato di debolezza o di malattia, vengano portati all’ospizio di Fonte Buono e con sollecita cura sia somministrato loro tutto ciò di cui i loro corpi hanno bisogno.» Un ospedale militare, in pratica, in cui rimettere insieme i feriti che tornano dal fronte, in modo che «quando si siano ristabiliti, facciano ritorno all’eremo». Cioè in trincea.

E se capita che muoiano mentre sono in convalescenza? «Qualora essi muoiano all’ospizio, i loro corpi siano portati all’eremo, perché siano seppelliti con gioia là dove con grande fervore essi hanno servito il Signore.»

Da: Privilegio d’amore. Fonti camaldolesi. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, a cura di Cecilia Falchini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2007.

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Nazarena, monaca reclusa (pt. 2)

(La prima parte è qui)

Nazarena (che si definiva «grossolano cavolfiore») è una Madre del deserto teletrasportata nel Ventesimo secolo, ma non è inconsapevole del mondo che ha lasciato, né selvaggia e illetterata. La sua «durezza» è rivolta soltanto contro se stessa, il suo combattimento ha due soli nemici: «il diavolo e l’io». La sua scelta di un eterno presente («Bisogna liberare il momento dal peso del passato che non torna e dalle preoccupazioni del futuro ignoto», una frase «buddhista»), dello svuotamento per far spazio al Signore, può sembrare ancora più impressionante considerando la condizione da cui è partita, che non ci è difficile immaginare. La sua «immolazione perpetua di sé» è una sepoltura ante litteram.

Ancora una volta, è paradossale che l’aspirazione all’annullamento si traduca in una «soluzione» che fa di lei un caso unico – invece di nascondersi nell’anonimato di una professione monastica senza particolarità, lei sceglie l’assoluta eccezione, che la trasforma in una specie di punto di riferimento, un modello estremo (ancora in vita era già citata in varie pubblicazioni). La sua obbedienza a oltranza (in questo caso rivolta alla «chiamata» del Signore), ai miei occhi, ha i tratti della ferrea volontà di chi contro tutto e tutti ha deciso di andare per la sua strada (come dimostra il suo percorso di avvicinamento alla reclusione). Una strada priva di valore – lo ripete in continuazione – ma che allo stesso tempo rappresenta il sacrificio totale di quella limitata dotazione di vita che abbiamo.

Ma infine mi si potrebbe chiedere: Non si tratta in fondo di una libera scelta? Non c’è posto nel mondo per tutti? Insomma, che male ti fa? O non è forse che la sua intransigenza ti mette a disagio perché espone i tuoi sotterfugi, il tuo desiderio di solitudine con tutti i comfort?

Scrive la curatrice, Emanuela Ghini: «La sua ascesi radicale fa problema. […] Indubbiamente la vita di Nazarena ha aspetti di un totalitarismo accettabile solo nell’ambito della sua eccezionale vocazione». Immagino quanto sia stata meditata quella parola – «totalitarismo» – e forse è per questo che non riesco a seguirla, anche soltanto per comprendere.

O, più semplicemente, questo è uno di quei casi in cui da non credente è più onesto dire «non capisco», in cui la «fede» è una nebbia oltre la quale mi è impossibile vedere. Oltre la quale non so nemmeno cosa ci sia da vedere.

(2 – Fine)

Oltre ogni limite. Nazarena monaca reclusa 1945-1990, a cura di Emanuela Ghini, Casale Monferrato, Piemme, 1993.

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Nazarena, monaca reclusa (pt. 1)

«So quanto facile sia illudersi circa queste intuizioni. Perciò non intendo essere presa sul serio. Forse Dio non c’entra affatto con quello che dico, né ispira ciò che sento. Non mi fido assolutamente di quanto provo, anche quando credo che venga da lui. Mi fido invece di chi mi parla in suo nome.»

Non sorprende che la prima a essere cauta circa la propria eccezionale esperienza sia lei stessa, suor Maria Nazarena, al secolo Julia Crotta (Glastonbury, Connecticut, 1907 – Roma, 1990; i genitori sono piacentini emigrati), monaca camaldolese che visse reclusa in una cella del monastero romano di Sant’Antonio Abate dal 1945 alla morte. E non sorprende anche, ma per un altro motivo, che la stessa prudenza si intuisca nelle parole dell’autrice dell’ottima cura del volume, la carmelitana Emanuela Ghini, come se stesse maneggiando materiale altamente infiammabile. Quando, ad esempio, Nazarena si dilunga sulla propria fame («per almeno venti anni ho sofferto di questo tormento»), la curatrice si chiede se non fosse bulimica, per poi scartarne la possibilità. E ancora: «Davanti a un cammino penitenziale estremo qual è quello di Nazarena, può sorgere il sospetto di atteggiamenti psichici non normali di genere masochistico», un’esperienza «anzi umanamente folle» che però è illuminata da quello che la monaca ha lasciato scritto e che non dà adito a dubbi circa il suo pieno equilibrio psicologico: Nazarena «volle vivere totalmente nascosta non certo per difficoltà umane di rapporto».

Gli scritti che gettano un po’ di luce sono undici note di carattere autobiografico, il Regolamento (con il quale si presenta nel 1945 da Pio XII perché lo approvi), trentatré lettere delle circa cento conservate e una scelta di frasi di Giovanni della Croce e Teresa di Lisieux. Vi si legge di un’infanzia e un’adolescenza serene e ricche di esperienze. Julia studia, fa sport, fa musica, con impegno e risultati (si laurea infine in Lettere e Filosofia). È alta (più di un metro e ottanta, e infatti gioca a basket), determinata, allegra, «golosissima», forte (una «robusta costituzione» che la sosterrà nelle privazioni). La «chiamata», interiore, verso un’altra «cosa» è del 1934, «cosa» che prende la forma della solitudine, del «deserto».

Passati due anni a New York (la New York del 1935-37), entra nel Carmelo di Newport, ma ne viene respinta tre mesi dopo. Così, parte per Roma (non tornerà mai più negli Stati Uniti) dove, attraverso vari contatti, fa un primo passo verso l’Ordine camaldolese, un’esperienza che si interrompe dopo solo un anno. Nel 1939 entra nel Carmelo francese di Torpignattara, dove passa cinque anni durissimi (per motivi non chiari, probabilmente «perché non era al suo posto», dice la curatrice), che la prostrano («Ero uno scheletro ambulante»). Si riprende e il richiamo della solitudine diventa imperioso: finalmente nel 1945 entra nel monastero camaldolese sull’Aventino dove resterà fino alla fine. Nel 1947 professa i voti perpetui e assume il nome di suor Maria Nazarena. Nel 1959 ottiene una piccola cella – 5 metri per 3, con un’ancor più piccola terrazza «per respirarvi aria» – appositamente sistemata secondo i suoi intenti.

Julia Crotta ha raggiunto infine il suo «deserto», in via di Santa Sabina, 64, 00153 Roma.

(1-continua; la seconda parte è qui)

Oltre ogni limite. Nazarena monaca reclusa 1945-1990, a cura di Emanuela Ghini, Casale Monferrato, Piemme, 1993.

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Una piccola terrazza e una pizza

Grazie alla preziosa segnalazione di un lettore di questo blog ho recuperato il volume che raccoglie gli scritti e narra la storia di suor Maria Nazarena, monaca camaldolese che visse quarantacinque anni (1945-1990) reclusa in una cella del monastero romano di Sant’Antonio Abate sull’Aventino. Prima di dedicargli l’attenzione dovuta, ho letto di corsa il Regolamento (sono fissato con le Regole), poche pagine che racchiudono le norme di vita che la monaca si diede (e che fece approvare, in una versione ridottissima, da papa Pio XII in persona, il quale, dopo una breve esitazione, fece sul foglio un segno di croce).

Le ho percorse su e giù, queste paginette, alla ricerca di un appiglio, di uno spunto qualsiasi, anche minimo, di «debole umanità» dal quale partire per provare a comprendere questa vicenda estrema. Qualcosa che magari non avesse nulla a che vedere con il resto, e correndo il rischio di fraintendere, ma che mi mostrasse il segno di un terreno, per quanto piccolo, comune.

Al punto 3 («Silenzio e solitudine») Nazarena scrive: «Non potrà uscire dalla reclusione se non per recarsi da medici e per cure… Passeggerà in cella o sulla piccola terrazza della reclusione». Mentre al punto 8 («Vitto») precisa, tra l’altro: «Non userà mai vino né caffè. Sempre esclusi: carne, pesce, uova, pasta asciutta, burro, pizza e ogni dolce».

Ecco, mi sono detto, quando ha dovuto elencare ciò cui avrebbe rinunciato, le è scappata la cosa che le piaceva di più. Bene, da quella pizza, e da quella piccola terrazza, posso cominciare ad ascoltarla.

Oltre ogni limite. Nazarena monaca reclusa 1945-1990, a cura di Emanuela Ghini, Piemme 1993.

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