Grazie alla preziosa segnalazione di un lettore di questo blog ho recuperato il volume che raccoglie gli scritti e narra la storia di suor Maria Nazarena, monaca camaldolese che visse quarantacinque anni (1945-1990) reclusa in una cella del monastero romano di Sant’Antonio Abate sull’Aventino. Prima di dedicargli l’attenzione dovuta, ho letto di corsa il Regolamento (sono fissato con le Regole), poche pagine che racchiudono le norme di vita che la monaca si diede (e che fece approvare, in una versione ridottissima, da papa Pio XII in persona, il quale, dopo una breve esitazione, fece sul foglio un segno di croce).
Le ho percorse su e giù, queste paginette, alla ricerca di un appiglio, di uno spunto qualsiasi, anche minimo, di «debole umanità» dal quale partire per provare a comprendere questa vicenda estrema. Qualcosa che magari non avesse nulla a che vedere con il resto, e correndo il rischio di fraintendere, ma che mi mostrasse il segno di un terreno, per quanto piccolo, comune.
Al punto 3 («Silenzio e solitudine») Nazarena scrive: «Non potrà uscire dalla reclusione se non per recarsi da medici e per cure… Passeggerà in cella o sulla piccola terrazza della reclusione». Mentre al punto 8 («Vitto») precisa, tra l’altro: «Non userà mai vino né caffè. Sempre esclusi: carne, pesce, uova, pasta asciutta, burro, pizza e ogni dolce».
Ecco, mi sono detto, quando ha dovuto elencare ciò cui avrebbe rinunciato, le è scappata la cosa che le piaceva di più. Bene, da quella pizza, e da quella piccola terrazza, posso cominciare ad ascoltarla.
Oltre ogni limite. Nazarena monaca reclusa 1945-1990, a cura di Emanuela Ghini, Piemme 1993.