Qualche giorno fa ho citato qui una frase di un monaco benedettino, a proposito della «tentazione», della quale sottolineavo un breve e notevole inciso: siamo messi alla prova per poter conoscere noi stessi e anche per essere «riconosciuti da[gli] altri». Il tema provoca per così dire un cortocircuito con un’altra breve frase di una monaca che sta vivendo circa mille anni dopo quel monaco. Si tratta della badessa Anna Maria Cànopi che nel suo commento alla Regola di san Benedetto, in fondo a una pagina, scrive: «Sappiamo che ci conoscono meglio gli altri che noi stessi. Perciò dobbiamo consegnarci agli altri con fiducia». Mi vengono a questo proposito tre osservazioni.
Anzitutto mi piace della letteratura monastica questa interconnessione, questa rete di rimandi e riferimenti, o anche questo ossessivo ritornare sui medesimi temi, che si estende per circa duemila anni. Si potrebbe obiettare che anche in altre regioni del sapere esiste questa rete, per esempio nel discorso scientifico, o addirittura che tutta l’elaborazione concettuale dell’essere umano è una rete. Nel caso dei monaci, forse, si può osservare con più facilità, giacché persino la forma in cui sono espresse determinate questioni è praticamente la stessa. Come se i monaci, oltre a vivere nel proprio tempo, fossero anche tra loro tutti contemporanei.
Mi pare inoltre di intravedere qui una possibile via di distinzione netta tra cenobiti e frati da un lato – uomini e donne di comunità -, ed eremiti e contemplativi dall’altro – uomini e donne di clausura, soli al mondo («Per un certosino», dice uno di costoro, «pensare ai suoi confratelli è spesso un ostacolo o una tentazione»).
E quindi mi dà da pensare, infine, il tema vero e proprio: gli altri mi conoscono meglio di me. Poiché, viene da aggiungere, di me colgono il puro lato pragmatico: azioni, omissioni, parole e silenzi. Cosa che per un sedicente materialista non è affatto contraddittorio.