Quando leggo le parole di Enzo Bianchi, il famoso priore di Bose, mi sembra di ascoltare la sua voce, e la prima impressione, abbastanza prevedibile, è quella di un individuo saggio che molto ha vissuto, fatto e meditato. Qui poi la forma epistolare amplifica l’effetto. Ma se resto alle parole pubblicate – le uniche che posso giudicare non conoscendo la persona né la sua comunità –, e le lascio risuonare un po’, quell’impressione passa in secondo piano e prevale un preciso dissenso. Mi permetto di dissentire, per quel che vale, poiché le sue pagine sono chiaramente rivolte a tutti, per rinsaldare chi crede e per dialogare con chi non crede.
Sorvolo su molti temi che mi sembrano ormai entrati in un repertorio consolidato, come la fretta che ci affliggerebbe, il culto dell’esteriorità e dell’io, la frenesia dell’attività – possono essere affrontati anche da un punto di vista materialista. Sorvolo anche sul tema del passaggio a una dimensione autentica dell’esistenza, basata sulla vita interiore, sul riconoscimento dell’unicità, sulla «fedeltà a se stessi» – un concetto di tale fragilità che non m’azzardo…
Mi azzardo invece a riflettere, da ospite non invitato, da lettore, sulla strana interpretazione proposta del cosiddetto «silenzio di Dio», secondo la quale il Signore si mantiene invisibile e inaudibile per non imporsi: «E se il Dio che preghi rimane invisibile e apparentemente silenzioso, manifesta così di non essere totalitario. Al contrario, ti lascia lo spazio e il tempo per essere te stesso». Attenzione, prosegue il priore, a non intestardirsi, nel proprio limitato discernimento, su questo silenzio, perché «è Dio a tacere? O è il credente, il popolo a non ascoltare, incapace di cogliere le parole che Dio esprime forse in altro modo, attraverso fatti ed eventi inattesi e imprevedibili. […] La parola di Dio resta nascosta nel suo grande silenzio, e dobbiamo imparare ad ascoltarli entrambi, poiché entrambi sono presenza di Dio. E Dio non può non essere presenza!» E non dimentichiamo, conclude, l’esperienza dei grandi contemplativi che si sono «lamentati» di questo ostinato mutismo, perché «la loro testimonianza ci insegna che quando imputiamo a Dio il suo mutismo, in realtà siamo noi incapaci di ascoltarlo…»
Di fronte a questo che ai miei occhi è un gioco di parole, io, che pure con le parole ci gioco fin troppo, scuoto la testa con decisione, e pazienza se lo faccio in nome della logica. La voce del priore suscita un sicuro rispetto e merita di certo di essere ascoltata, e non perché lo dica io, ancor più considerando il panorama delle «voci ufficiali» che parlano ogni giorno da varie «cattedre», ma, paradossalmente, non fa che rafforzarmi nel mio non credere. E mi sembra molto rappresentativa di quel progressivo «assottigliamento» di «Dio», di quel tentativo di «aggiornare» la fede, durante e dopo il Ventesimo secolo, anche a costo via via di svuotarla pur di fronteggiare ancora con essa il mondo e soprattutto la storia.
Enzo Bianchi, Lettere a un amico sulla vita spirituale, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2010.