Per quanto mi sforzi di comprendere, lasciando da parte qualsiasi intento polemico, mi è difficile seguire la logica della «tentazione», soprattutto per come l’ho trovata esposta tante volte nella letteratura monastica. Quella tentazione che se non viene direttamente dal Signore, da lui è comunque permessa (a partire da Giobbe).
Visto che è passato di qui da poco, cito Otlone: «[Non bisogna meravigliarsi che a Dio piaccia] che tutti siano messi alla prova. Perché non conoscerebbero davvero se stessi, né sarebbero riconosciuti da altri, se queste esperienze non li avessero resi consapevoli e provati» (quel «né sarebbero riconosciuti da altri» meriterebbe una riflessione a parte). Soltanto nella tentazione, e nella caduta, possiamo prendere veramente atto della nostra debolezza e della nostra fragilità, così da convertire il nostro orgoglio in umiltà, nella certezza che non saremo mai tentati «oltre le nostre forze». Quindi sopporta tutto, più o meno, perché ti fa bene e perché, in ogni caso, qualcuno sa che ce la puoi fare.
Ora, si potrebbe obiettare che l’errore stia proprio nel cercare una logica, ma anche chiamandolo discorso (poiché mistero mi è impossibile) rimane secondo me un punto rilevante: per sapere che le ossa si possono fratturare non ho bisogno di rompermi una gamba. Me lo dice la medicina, me lo dice la storia, me lo dice il vicino di casa che è scivolato sulle scale nonostante avesse fatto attenzione – e me lo racconta.