Il dinamismo della vita monastica, e la sua apparentemente paradossale convivenza con una dimensione come quella della stabilità, di cui parlavo negli appunti della settimana scorsa, ha trovato un’interessante eco nella lettura che ho iniziato qualche giorno fa: Il senso della vita monastica, di Louis Bouyer. È un testo di grande rilievo, datato 1950 e opera di colui che è «forse uno dei teologi più importanti del Novecento, sebbene… probabilmente meno conosciuto di altri al grande pubblico».
Scrive infatti Bouyer nel denso capitolo iniziale, «Cercare Dio», che «di questo dinamismo che anima la vita monastica – perché come si può constatare, è essenzialmente un cammino e non uno “stato” – Agostino di Ippona ci ha lasciato un’immagine impareggiabile». L’immagine di Agostino è l’Esposizione sul Salmo 42, «Come il cervo anela alle fonti dell’acqua», ma ciò che mi interessa qui è piuttosto quello che Bouyer dice a proposito del «cammino». Mi attira molto questo paradosso di febbrile stabilità, nella quale la semplicità ottenuta per sottrazione, anche di movimento (il «sacro» movimento della modernità; e soprattutto nella declinazione benedettina) diventa il trampolino di un dinamismo, appunto, cui tra l’altro Bouyer attribuisce il carattere di massima urgenza: «La vocazione del monaco non è altro che la vocazione del battezzato, ma vissuta nella dimensione, si potrebbe dire, della massima urgenza». Esiste forse un luogo nel quale l’urgenza sembrerebbe bandita maggiormente che in un monastero?
Ma di quale urgenza si tratta? Bouyer passa in rassegna alcuni elementi che non sono affatto estranei alla vita monastica, ma che non ne rappresentano l’essenza. Il cammino del monaco non è prima di tutto, o soltanto, contemplazione, o penitenza (che ne è semmai il punto di partenza), o celebrazione, o conoscenza, o apostolato (e tanto meno proselitismo, in singolare assonanza con una delle prime e più decise affermazioni di papa Francesco: «Il proselitismo è una solenne sciocchezza. Non ha senso»). L’urgenza del monaco è la ricerca, e «ciò che egli cerca, se è veramente monaco, non può essere qualcosa, ma Qualcuno», cioè Dio, che va cercato come persona, «come la persona per eccellenza, e non solo come il “tu” sul quale riversare tutto il nostro amore, ma come l'”io” che si è rivolto a noi per primo, colui la cui Parola d’amore rivolta al nulla ci ha tratti dal nulla una prima volta, e rivolta al nostro peccato ci trae fuori dal nulla una seconda volta: essere monaco non è nient’altro che questo».
Una Persona che ha chiamato e poi si è allontanata, si direbbe, stando alla precisazione che Bouyer ricava da Gregorio di Nissa: «Trovare Dio significa cercarlo senza sosta». Il rozzo materialista che è in me segue con attenzione, ma fa molta fatica, ed è giusto così. Diffido un po’, infatti, di quei giochi di parole secondo i quali, ad esempio, il senso della domanda sarebbe la domanda stessa e non la risposta. Il rozzo materialista, se viene chiamato al telefono, dice «pronto», e si aspetta che dall’altra parte qualcuno risponda.
Louis Bouyer, Il senso della vita monastica, prefazione di L. D’Ayala Valva, traduzione di L. Marino, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2013.
In effetti nelle Bibbia quando rispondono alla chiamata di Dio rispondono “Eccomi” 😉 Con affetto