(la prima parte è qui)
«Pensare che oggi le cose siano diverse sarebbe un’illusione fatale», risponde Gabriel Bunge all’inizio del suo saggio1 a chi obietta che l’acedia era un «problema» di individui solitari ed eccentrici che si rifugiavano nel deserto. Sono gli esiti di un «processo sempre più profondo di spersonalizzazione» – del bene, del male, di tutto – che ci spingono a pensare che la «cosa» non ci riguardi, e a tali esiti occorre opporsi ricordando che «i vizi che opprimono l’umanità [«così pure i nemici e gli avversari del cristiano»] sono sempre e dovunque gli stessi». Gli scritti dei Padri, le loro esperienze fatte in condizioni estreme, possono essere una guida anche per l’oggi perché fanno riferimento a un «nucleo in cui ognuno può riconoscere la propria esperienza personale», per quanto i nomi e i «travestimenti» dei demoni che ci affliggono siano cambiati.
Dunque l’acedia2, tra gli otto famosi «pensieri» il temuto assalto del demone di mezzogiorno3, che determina «una sorta di perdita di tensione delle forze naturali dell’anima» e produce un tipo specifico di sofferenza. «Come un’ombra» che accompagna la condizione umana, l’acedia è un fenomeno multiforme che si manifesta come punto di arrivo di un processo di opacizzazione del rapporto del monaco (dell’io) con sé, gli altri, le cose, Dio, e cui concorrono le forze razionali e irrazionali che ci agitano: «L’acedia rappresenta una sorta di vicolo cieco nella vita dell’anima», una paralizzante «avversione nei confronti di tutto ciò che si ha a disposizione, legata a una bramosia per ciò che non è a portata di mano». È qui che esplode, si può dire come una bomba di desiderio e irascibilità, l’amore di sé, che distoglie da tutto il resto e apre la strada a ogni vizio. In questo amore di sé (philautía) «Evagrio individua il sostrato di ogni passione. Per cui la passione è nella sua essenza un’alienazione egoistica, è l’essere prigionieri del proprio io»; amore di sé, va aggiunto, che diventa odio di ogni altra cosa.
Manifestazioni. La voglia di qualcosa di nuovo, l’irrequietezza (anche proprio quella degli arti), la noia e l’ansia, le malattie immaginarie, questo inutile lavoro che mi tocca fare e quell’imbecille del mio capo, l’«illusione dell’agenda piena», ah, se solo avessi tempo, ah, questa città questo quartiere questa stanza, «quando legge, l’acedioso sbadiglia molto… si sfrega gli occhi e stira le braccia e distogliendo gli occhi dal libro fissa la parete. Poi… lo legge un po’… sfogliando… conta le pagine… critica la scrittura e la decorazione e per finire vi appoggia sopra la testa e cade in un sonno non troppo profondo…» – tutto storto, vera desertificazione, ben più spaventosa del deserto fisico dei Padri.
Rimedi. «I rimedi contro l’acedia sono di due tipi: generali e specifici.» Anzitutto conoscenza e dominio di sé; poi la fermezza (fatta di coraggio e pazienza), che si traduce in resistenza («questo significa restare là sul posto, finché l’attacco non sia cessato»). L’apertura del cuore, cioè la confidenza al padre o alla madre spirituale. L’azione positiva (fatta di costanza e perseveranza): «Guariscono l’acedia la costanza e il fare ogni cosa con grande cura, timore di Dio e perseveranza. Fìssati una misura in ogni opera, e non abbandonarla finché non l’hai portata a termine». Il lavoro, quindi, e infine, sopra ogni altra cosa, la preghiera, dal momento che «acedia e preghiera si escludono a vicenda».
Degli esiti si è detto. Al di là dell’acedia c’è la possibilità di superare l’alienazione ed essere di nuovo «persone totalmente unificate» (cioè monaci) che sono uscite dalla prigione (dell’amore) di sé e sono nuovamente «capaci di Dio». Anche nel momento di assoluta oscurità mai ci viene tolta la libertà di questa scelta: «Questo passo al di là di se stessi, ciascuno deve farlo personalmente, eppure non da solo, perché innumerevoli sono coloro che l’hanno fatto prima di lui. […] A tal punto Dio ama e stima la sua creatura, da lasciarle spazio in se stesso affinché compia da sola quest’ultimo piccolo passo verso di lui». E qui la distanza tra lo psicologo Evagrio, e il suo interprete Gabriel Bunge, e gli psichiatri si fa incolmabile: la scelta.
(2-fine)
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- Gabriel Bunge, Akèdia. Il male oscuro, nuova edizione interamente rifatta sulla quarta edizione tedesca ampliata [1995], a cura di V. Lanzarini, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1999.
- «I possibili equivalenti italiani sono tanti: tedio, noia, pigrizia, scoraggiamento, languore, disgusto, depressione, nausea… Ma per non perdere le varie sfumature di senso, faremo anche noi come Cassiano e parleremo semplicemente di acedia.»
- «Chi è stato in Oriente avrà ben presente lo sfondo reale di questo quadro. Il tempo che va dall’ora quarta (le 10.00) all’ora ottava (le 14.00) è per così dire il “punto morto” della giornata: il sole è alto nel cielo, la calura è opprimente…»