«Ciò che è eccellente»: sebbene il concetto non sia privo di complicazioni e l’uso improprio, passato e recente, l’abbia affaticato, il suo apparire ad apertura della «prima collezione» dei Discorsi ascetici di Isacco di Ninive dà come la tonalità della grande sinfonia che ci si dispone ad ascoltare iniziandone la lettura – qui non si scherza. Che poi il principio di ciò che è eccellente sia «il timore di Dio» è sviluppo altrettanto primario, ma che, come sempre, mi limito a registrare senza poterne dire alcunché.
Ho cominciato, appunto, la lettura del massiccio e splendido volume1 e di nuovo, da subito, sono stato conquistato da quel senso di «attualità» che il fedelissimo, a Isacco, e lodevolissimo curatore, Sabino Chialà, opportunamente sottolinea nell’Introduzione, illustrando «l’enorme irradiamento che l’insegnamento isacchiano ha conosciuto, infrangendo frontiere linguistiche e teologiche»: un padre della chiesa siro-orientale, originario dell’attuale Qatar e vissuto nella seconda metà del VII secolo, tradotto, letto e venerato nelle chiese di tradizione greco-ortodossa, in ambito slavo, copto ed etiopico, presente in Europa nelle biblioteche camaldolesi, certosine, francescane e domenicane, apprezzato anche in ambiente islamico.
«Un solitario che parla a dei solitari» e che pure si rivolge anche a me con un’immediatezza che avevo già sperimentato e che sempre mi sorprende, la ragione essendo forse, come dice Chialà, «la franchezza, la sincerità e dunque l’autenticità di un’esperienza che, essendo profondamente, radicata, emerge con parole che attraversano i tempi e gli spazi senza farsene oscurare»; e più ancora la ragione per il miscredente stando nella precisione con cui Isacco, oltre che di quella di Dio, parla «della sua esperienza dell’uomo che lui è e che vede intorno a sé», non essendoci forse nulla di più interessante e di utile di una rigorosa autoanalisi, da sant’Agostino a Sigmund Freud.
Già dai primi «discorsi», il primo, il secondo, il monumentale Terzo discorso, ho avuto ancora – buon ultimo di una schiera di lettori anche eccellenti – la sensazione di essere di fronte a un tesoro di sapienza, come se Isacco avesse aperto la sua «stanza del tesoro», quella che afferma essere «dentro di noi» e nella quale possiamo trovare «i gradini per i quali… salire». Non potrò approfondire la ricerca di «ciò che è eccellente», poiché «richiede un cuore che sia libero dalla terra e dalle relazioni con essa», cosa che ritengo impossibile; né posso considerare «tutte le realtà» al pari dei sogni che svaniscono, e che «spesso anche prima della morte ti abbandonano e si dileguano»; né infine posso trattare le cose sensibili come «caparra della delizia di quelle del mondo futuro»; ma posso ugualmente imparare molto da Isacco su come provare a comportarmi «quaggiù», attingendo alla sua saggezza concreta e derivata dall’esperienza: «La parola che viene dalla pratica è un tesoro affidabile, mentre la sapienza oziosa è un possesso vergognoso: è come un artista che dipinge sul muro un’acqua che non potrà alleviare la sua sete».
«Senza deserto e un luogo desolato, le passioni2 non si acquietano né cessano i cattivi pensieri», avverte Isacco, e allora tanto vale affrontarli e cercare di contenerli, ricordando per cominciare che l’origine del loro pungolo è quadruplice: a) il corpo (si sa); b) il mondo (certo); c) l’anima (intenderò cioè la combinazione di pensieri e ricordi); d) i demoni (intenderò gli istinti).
È frequente ascoltare qualcuno che, battendo il piede, afferma: non prendo lezioni da nessuno! Da Isacco mi sento di prenderle tutte, le lezioni, o quasi.
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- Isacco di Ninive, Discorsi ascetici. Prima collezione, introduzione, traduzione e note a cura di S. Chialà, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose 2021; prima traduzione italiana dall’originale siriaco. Sempre a cura di Chialà si potevano già leggere la Terza collezione dei Discorsi ascetici e la bella antologia Un’umile speranza (anche quest’ultima condotta sugli originali siriaci, ma con alcune scelte di traduzione che sono state modificate in questa nuova edizione integrale. Per restare alla nota iniziale, ad esempio, «ciò che è eccellente» era reso in precedenza con «virtù», «ma si trattava di una traduzione fuorviante, in quanto in “virtù” è insita un’idea di forza che il termine siriaco non ha»).
- «Nell’interpretazione contemplativa, si intende con “mondo” una realtà terminologica comprensiva, che riassume le diverse passioni. Quando dunque vogliamo indicare le passioni globalmente, le diciamo “mondo”. Quando invece [le vogliamo indicare] singolarmente, le chiamiamo “passioni”, distinguendone i nomi» (II, 25).
Molto, molto interessante il numero di questo ottobre 2021 di «Donne Chiesa Mondo»1, mensile dell’«Osservatore Romano», dedicato a come vivono le suore e le monache di oggi; «o meglio», come dice Ritanna Armeni nella premessa, «di che vivono, come provvedono alle necessità della vita quotidiana, come si organizzano». Il piglio gioioso della copertina contrasta un po’ con il tono generale del numero, improntato a una composta eppur profonda preoccupazione per la situazione delle diverse comunità. La foto che vi è riprodotta, assai famosa per chi è appassionato di cose monastiche, raffigura infatti un gruppo di consorelle dell’abbazia cisterciense di Boulaur, in Occitania, issate con grande soddisfazione su un grosso trattore agricolo2.
Torno sempre volentieri sugli scritti di Evagrio Pontico, o sui libri che ne trattano, perché il dotto monaco e diacono, nato nel 345 in una regione dell’attuale Turchia e morto nel 399 nel deserto egiziano, rappresenta forse l’emblema di quella «conoscenza psicologica» ante litteram che tanto mi attira verso la letteratura monastica. Conoscenza psicologica che andrebbe chiamata più propriamente «sapienza spirituale», come infatti indica il sottotitolo del saggio di Gabriel Bunge che mi ha riportato a Evagrio: Akedia. Die geistliche Leher des Evagrios Pontikos vom Überdruss, apparso una prima volta in Italia nel 1992, presso le edizioni dell’Abbazia di Praglia, col titolo di Akèdia. La dottrina spirituale di Evagrio Pontico sull’accidia1 (che rende il «tedio» tedesco), e successivamente nel 1999, presso le Edizioni Qiqajon, indicativamente intitolato Akedia. Il male oscuro2. Conoscenza psicologica che tuttavia è stata ampiamente sottolineata in tempi moderni, da grandi studiosi sia religiosi, come il p. Hausherr (che definisce Evagrio tout court «psicologo») sia laici, come lo psichiatra cui, in questo caso, è affidata la prefazione dell’edizione di Praglia, Gabriele Benedetti. Il quale, seppur contrario a sovrapporre all’akedia di Evagrio la moderna «depressione», osserva che il «filosofo del deserto» e il suo interprete descrivono una situazione spirituale «che lo psichiatra non può non chiamare anche una situazione psichica; una situazione che al limite è malattia».
A un primo livello la lettura dello splendido volume dedicato a Margherita Marchi1, la «madre fondatrice» della comunità di benedettine che nel maggio del 1941 prese infine dimora stabile nell’abbazia di Viboldone, nei pressi di San Giuliano Milanese, è un’immersione nella proverbiale «miniera di informazioni»: sulla vita e sulla formazione di m. Marchi, sull’imponente fondo epistolare della medesima, sulle vicissitudini della comunità, dei suoi rapporti con la Chiesa e della sua posizione nel contesto generale, sulle figure di ecclesiastici che la avvicinarono, la accompagnarono, la sostennero, sulla composizione della comunità originaria. Va da sé che ne ricorderò assai poche, di tali informazioni, ma la traccia, per così dire, è lasciata, con forza, stile e qualità, e si potrà sempre tornare al volume, che per fortuna esiste, per verifiche e ripassi molto più agevolmente che tramite ricerche d’archivio.