«Noi facciamo le tipografe». In margine a un volume dedicato a Margherita Marchi

MargheritaMarchiA un primo livello la lettura dello splendido volume dedicato a Margherita Marchi1, la «madre fondatrice» della comunità di benedettine che nel maggio del 1941 prese infine dimora stabile nell’abbazia di Viboldone, nei pressi di San Giuliano Milanese, è un’immersione nella proverbiale «miniera di informazioni»: sulla vita e sulla formazione di m. Marchi, sull’imponente fondo epistolare della medesima, sulle vicissitudini della comunità, dei suoi rapporti con la Chiesa e della sua posizione nel contesto generale, sulle figure di ecclesiastici che la avvicinarono, la accompagnarono, la sostennero, sulla composizione della comunità originaria. Va da sé che ne ricorderò assai poche, di tali informazioni, ma la traccia, per così dire, è lasciata, con forza, stile e qualità, e si potrà sempre tornare al volume, che per fortuna esiste, per verifiche e ripassi molto più agevolmente che tramite ricerche d’archivio.

A un secondo livello si staglia la figura di una donna di fede (Bologna, 6 giugno 1901 – Viboldone, 5 gennaio 1956) divisa tra azione e contemplazione, con tutti i problemi contingenti derivanti dall’epoca, e animata comunque da un desiderio di libertà, di «una libertà cristiana, di una libertà liberata», per usare le parole di Fulvio De Giorgi, che della m. Marchi traccia un esauriente profilo spirituale; una libertà che rappresenta il «nucleo essenziale e permanente tanto di una personalità energica e vitale quanto di un’esistenza per la maggior parte dei suoi anni scandita in semplicità dalla preghiera, dal lavoro e dall’umiltà silenziosa del chiostro». Una libertà cristiana che si traduce in un essere a disposizione: delle cose e delle circostanze, degli altri e, naturalmente, di Dio. «Bisogna dimenticarsi», scrive Margherita Marchi, non ancora professa, in una lettera che risale al 1923, «non a parole ma con i fatti: vivendo per gli altri e negli altri cercando il Signore, fissarLo e non togliersi da quella contemplazione per nessuna ragione. Non bisogna ricordarsi di sé neppure per disprezzarsi» (È questo, sia detto tra parentesi, uno dei punti di maggior «difficoltà» sui quali ritorno in queste note, questa declinazione di libertà di spirito, «dono imprezzabile», ampiamente diffusa e che «consiste principalmente nell’indifferenza e prontezza di fare in ogni cosa quello che si conosce essere volontà di Dio», per citare mons. Giulio Belvederi, che di m. Marchi fu primo «padre spirituale» e primo confidente e primo compagno d’azione. Quello che si conosce essere volontà di Dio – su espressioni come questa inciampo sempre, nella mia incapacità, della quale non riesco del tutto a incolparmi, a cogliervi un qualsivoglia contenuto di realtà. E già che ci siamo, un altro punto di difficoltà, sul quale dovrò tornare, sta in quel dimenticarsi: qui sono per così dire a casa, poiché ci si può dimenticare soltanto di ciò che si ricorda più che bene. La tipica rivolta contro l’ingombrante presenza dell’io è anzitutto segno della sua presenza, quanto più virulenta la prima, tanto più notevole la seconda.)

C’è poi un terzo livello, che so essere marginale rispetto al quadro complessivo che il volume traccia, ma che talvolta è quello che suscita il mio maggiore interesse. Si tratta di dettagli, battute estratte da lettere o da altri documenti d’archivio, piccole annotazioni, scelte lessicali curiose, minuzie che rimandano alle persone in carne e ossa, alle loro esistenze quotidiane, e le restituiscono con un’evidenza che almeno per un istante vince il tempo. Il volume ne è pieno e ne riporto solo qualche piccolo esempio. Madre Marchi che racconta a un’amica delle sue prime esperienze di maestra, in una colonia: «Ho i bambini di Imola, 40 maschietti tutt’altro che docili e di sentimenti tutt’altro che buoni. Sono quasi tutti di famiglie comuniste e questo ti basti» (corsivo dell’autrice)2. La di lei diffidenza per «qualsiasi esercizio di mortificazione, di virtù rigida, acrobatica – lasciamelo dire – sotto la quale c’è sempre il vuoto» (idem). La sorpresa che s. Giovanna Maria Scalabrini, fida consorella della madre, prova davanti a «innumerevoli cianfrusaglie devozionali» trovate in un altro monastero. Il bacio dell’anello da parte delle consorelle, «gesto che ripeto centinaia di volte in un giorno», come ricordato da m. Maria Ignazia Angelini, che di Viboldone sarà poi badessa e che a m. Marchi dedica un saggio di notevole esegesi, centrato sull’idea di un monachesimo «materno» e comunionale. «Ha scritto molto la Madre, e spesso a lungo: quattro, sei facciate di foglio, vergate con grafia chiara, elegante, ordinata.» «Sono un povero moscerino, oscuro, dolorante, ma su di esso, di tratto in tratto, si posa la Luce» (e «Luce» fu l’ultima parola di Margherita Marchi sul letto di morte). Tre righe per suor Armida Brucchietti (1913-1997): «A Viboldone venne assegnata alla tipografia, e poi, finché le forze la sorressero, alla sartoria; si occupò anche del pollaio. Monaca battagliera e obbediente». Suor Maria Pia Garabuggio, infermiera e devotissima alla Madre, e da lei chiamata «il mio primario». Suor Giovanna Maria Scalabrini, che «di tutti gli eventi vissuti dalla comunità… tenne meticolosamente nota, su pezzettini di carta divenuti proverbiali». I «curriculum» delle consorelle, da una sede all’altra prima dell’approdo a Viboldone («confezione arredi sacri… maestra di lavoro, lavoro di ricamo… infermiera e dispensiera… maestra di casa, lavoro nell’amministrazione, nell’orto, nel giardino e nella cura del bestiame da cortile… infermiera, organista, lezioni private, maestra di casa, scuola di canto alle ragazze del paese, lavoro di ricamo»). Certo, il lavoro, perché la comunità deve sostentarsi e come dice ancora m. Margherita Marchi: «Se le vestali ci fossero ora, dovrebbero fare le commesse di negozio per potersi dedicare a mantenere il fuoco sacro. Noi facciamo le tipografe per conservare la possibilità di dedicarci alla preghiera».

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  1. Margherita Marchi (1901-1956) e le origini delle Benedettine di Viboldone, saggi e ricerche nel 50° della morte, a cura di M. Tagliabue, Vita e Pensiero 2007.
  2. Autrice che in un’altra nota si riferisce al monastero di Viboldone come «isola situata in uno stagno di comunismo».

2 commenti

Archiviato in Benedettine / Benedettini, Libri

2 risposte a “«Noi facciamo le tipografe». In margine a un volume dedicato a Margherita Marchi

  1. “Ora et labora” nella più pura declinazione benedettina… (ora che mi ci fai pensare, mi sa che il cambio di significato di “laborare” nel passaggio dal latino all’italiano sia stato spinto da quel motto)

  2. MrPotts

    Ammetto che non ci avevo mai pensato (né mi pare di aver letto alcunché al riguardo).

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