Testimone inattendibile (Dice il monaco, CIV)

Disse abba Poemen, padre del deserto, verso la fine del IV secolo:

Sta scritto: «Testimonia ciò che i tuoi occhi hanno visto». Ma io vi dico: non rendete testimonianza nemmeno di ciò che toccate con mano. In questo genere di cose un fratello prese un abbaglio: gli parve di vedere un fratello che peccava con una donna. Dopo essere stato molto combattuto, andò a colpirli con un piede, credendo che fossero loro, e disse: «Smettetela dunque! Fino a quando?» Ed ecco erano fasci di grano! Per questo vi ho detto: anche se toccate con mano, non accusate.

Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari, Città Nuova (1990) 20085, pp. 400-401 (Poemen, 114).

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Perché non si fastidiscano i prossimi (Voci, 30)

IstruzioneNovizi Capitolo XIV. Della modestia in commune

La modestia, ch’è una moderazione de’ movimenti esteriori, par che tiri l’origine dalle virtù che abbiamo dichiarate, particolarmente dalla castità, umiltà, mansuetudine e pazienza: perché quell’ordine interiore de’ buoni affetti produce la composizione delle parti esterne dell’uomo, come un frutto bellissimo da vedersi. […] Con tutto ciò aggiungiamo le regole per comporre l’uomo esteriore secondo la disciplina de’ santi Padri, onde osservi quel decoro.

Il capo. Il monaco di maniera deve moderare il capo che non lo porti alzato, né chino, né piegato a questo o a quel lato. Quando cammina, se si sente chiamar da dietro da chi chi sia, non rivolti solamente il capo, ma tutto il corpo. Né allora lo muova con molta fretta, ma riposatamente, come deve fare tutte le volte ch’è necessario muover il capo. Da sé farà ciascuno altre cose modestamente se si ricorderà delle cose che abbiamo dette; ma quel ch’appartiene a gli occhi si tratterà separatamente.

Le braccia. Le braccia s’hanno da muovere in maniera, ogni volta che bisognerà far alcuna cosa, che si fugga l’eccesso, perché né conviene stenderle molto ad usanza de’ secolari, come s’avesse a far mostra della forza, né con difficoltà, come se rincrescesse il faticare. Ma nel coro si devono piegare in modo che stiano alzate al petto, e che si tenga il breviario con l’una e l’altra mano, perché è brutto il tenerlo sotto lo stomaco, brutto il nascondere l’una delle mani, e brutto ciò che dimostra dappocaggine. Nell’orazione le braccia siano inserte sotto la pazienza [qui per capo dell’abito religioso, scapolare], o solamente le mani congiunte si compongano in modo che scaccino la languidezza nemica dell’orazione. Nel refettorio, quando si dà il segno per mangiare, si stendano le braccia lentamente, acciò non paia che la concupiscenza le stimoli. Ne gli altri luoghi (che non è necessario raccontare ad uno ad uno), quando non occorre far alcuna cosa, le mani composte presso la fibbia del cingolo, conservino una modesta positura di sé e delle braccia.

Le gambe. Bisogna governar le gambe di maniera che si compongano con piegarle e stenderle ugualmente, ogni volta che qualche ceremonia particolare non esclude alcuna di loro. Et è da guardarsi di sopraporre piede a piede o gamba a gamba, o ch’in altro modo inusitato entri sconvenevolezza.

Tutto il corpo. Nel camminare bisogna in modo comporre tutto il corpo che non vada né teso, né rimesso (il che appartiene alla disposizione di lui), né camini con fretta, o con lentezza, il che appartiene al moto. Nel sedere, o sia nel coro, o nell’oratorio, o nel refettorio, o nel luogo della ricreazione, o nella cella, o altrove, non stia curvo, né troppo ritto, né distorto, né d’altro modo sconcio che mostri languidezza d’animo, o per il contrario affettazione. Di notte giaccia coperto nel letto come in un sepolcro, perché qualche parte scoperta non offenda gli occhi. Di giorno, nella cella, stando in piedi, inginocchiandosi, o sedendo così compongano il corpo senza appoggiarsi, che quelli che entrano all’improvviso non restino offesi dal vederlo. Finalmente tutto quello ch’offende la vista de gli altri, o di se stessi, si fugga da’ religiosi con diligenza.

L’azione del corpo in compagnia d’altri. Quando si sta per esempio appresso qualche padre, o fratello, bisogna fuggir la molta vicinanza, o distanza, ma attaccarsi al mezzo, che stia bene alla cosa della quale si tratta, il che si conoscerà dalle circostanze. Quando si cammina insieme bisogna avvertire che non si dia fastidio o con l’andar innanzi, o co’l tardare, o con l’impedire gli altri, o con l’urtare gli altri ne’ fianchi, o con altri abusi del camminar modesto. Quando si siede bisogna guardare che con l’accostarsi troppo a gli altri, o con l’impedire la vista, o l’udito delle cose che si dicono, o con qualsivoglia altro modo poco conveniente non si generi fastidio. Et in ogni positura del corpo di maniera s’adattino al corpo le vesti, che siano acconce e coprano tutte le parti, nelle quali (come nelle celle, libri e tutte l’altre cose) lodiamo la nettezza, perché non si fastidiscano i prossimi.

♦ Giovanni di Gesù-Maria (1564-1615), L’istruzione dei novizi (1605) – Instruttione di novitii, composta in lingua latina dal molto R.P. Fra Giovanni di Giesù Maria, Preposito generale della Congregatione de’ Carmelitani Scalzi, et hora per commune utilità tradotta nella volgare, Roma, per Giacomo Mascardi, 1612. [Con qualche leggera normalizzazione ortografica.]

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«Prego, accomodaTi»

Una delle immagini più ricorrenti nel mio tentativo di comprensione di cosa significhi «essere monaci» è quella di «fare spazio», essendo uno degli obiettivi e degli esiti della scelta di vita di monaci e monache la liberazione di uno spazio interiore in cui accogliere la presenza ininterrotta di Dio e restaurare l’«intimità» con Lui. Liberazione ottenuta mediante una serie di «accorgimenti» esteriori, simboleggiati dal monastero e riassumibili nella Regola e nelle sue molteplici declinazioni, ma soprattutto grazie a una «manovra interiore» che metta da parte le vanità mondane e le realtà transitorie e ponga un limite all’ipertrofia dell’Ego. Senza dimenticare come tale limitazione consenta anche una più pulita accoglienza e un più trasparente ascolto degli altri, e non soltanto dell’Altro.

Ho incontrato più che frequentemente negli scritti monastici (dall’articolo alla Costituzione apostolica, dal IV al XXI secolo) questa idea di «fare spazio», che presuppone quindi un precedente «ingombro» (come di ripostiglio invaso da inutili cianfrusaglie); lo si potrebbe definire un leitmotiv, esemplificabile con una citazione, una per tutte, pescata volutamente a caso: «Allora, in parole povere, cosa “fa” il monaco per gli altri? Il monaco fa spazio a Dio. È dunque un individualista? No: proprio così (solo così) può fare spazio agli altri. Proprio nel vivere dell’essenziale egli trova anche la profonda comunione con i fratelli, con ogni uomo: sotto lo sguardo della Verità scopre sé stesso e ogni uomo come oggetto di uno sguardo di compassione, di una misericordia immeritata. Porre al centro Dio significa decentrare da sé e accorgersi finalmente dell’altro» (da un articolo della monaca trappista Irene Canepa). E come non ricordare anche che «il silenzio è vuoto di sé stessi per fare spazio all’accoglienza; nel rumore interiore non si può ricevere niente e nessuno. La vostra vita integralmente contemplativa richiede “tempo e capacità di fare silenzio per ascoltare” Dio e il grido dell’umanità» (Francesco, Vultum Dei quaerere, 33).

E allora, con la massima cautela, e con l’incoscienza, del dilettante, si può provare a tirare un filo con un altro concetto nel quale mi sono imbattuto più volte nelle mie limitatissime letture di mistica e di cabbalà ebraica e che trovo sommamente «pensierogeno»: quello di tzimtzum, cioè la «contrazione di Dio in sé stesso [che] ha lo scopo di liberare uno spazio mistico primordiale nel quale egli ritorna poi attraverso la creazione». È Dio per primo, con un «gesto» misteriosissimo di «autolimitazione», a «fare spazio» affinché il mondo, e tutto il resto, sia. E, come mi insegna ulteriormente l’introduzione di Daniela Leoni alla formidabile raccolta delle omelie di Kalonymus Shapira1, lo tzimtzum «non è un evento realizzatosi una volta sola all’inizio della creazione, ma rappresenta la modalità attraverso la quale Dio si rapporta ogni giorno con la realtà».

Non solo. Nella prospettiva di rabbi Shapira «ogni uomo, per entrare in comunione con Dio – o meglio, per lasciare che il Dio infinito entri in comunione con lui – deve compiere in sé stesso lo tzimtzum, imitando quella auto-limitazione del sé che ha Dio come modello esemplare». L’annullamento dell’Ego (la nullificazione dell’egocentrismo «tanto importante come strumento mistico del pensiero chassidico») è l’«abito fondamentale di cui l’uomo deve rivestirsi per poter accedere all’adesione totale del proprio essere al Creatore (devequt), nel quale solo è possibile trovare il senso della propria esistenza»2.

Ma sta parlando un chassid o, per dire, un Padre del deserto, o un certosino? Se vogliamo, poi, e senza avventurarsi in questioni che non sono all’altezza di affrontare, «fare spazio» è una manovra sempre consigliabile, no? Fare spazio nelle conversazioni, alle cose interessanti, alle confidenze, nel traffico, sull’autobus…

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  1. Kalonymus Shapira, Nuovi responsi di Torà dagli anni dell’ira, introduzione di D. Leoni, traduzione e note di L. Cattani, Giuntina 2023.
  2. Aggiunge Adin Steinsaltz: «È possibile asserire che l’egocentrismo è, di fatto, una perdita dell’anima. I nostri maestri dicono: “Chiunque abbia in sé uno spirito rozzo – disse il Santo, benedetto Egli sia – Io e lui non possiamo coabitare nel mondo”, difatti l’io di un uomo del genere riempie tutta la realtà e non vi lascia spazio nemmeno per il Santo, benedetto Egli sia, e a maggior ragione per gli altri» (L’anima, traduzione di A.L. Callow e C. Nicolini Coen, Giuntina 2018, p. 91).

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Tre brevissime lezioni e mezza

Prima lezione. C’era un anacoreta che voleva andare a trovare Poimen per via della sua fama: un sapiente, col quale potrò parlare a un certo livello, pensava. Ci si fa accompagnare da un fratello, entra da abba P e attacca a parlare «di cose spirituali e celesti». E abba P niente, si volta pure dall’altra parte. L’anacoreta, scornato, esce e dice al fratello: son venuto per niente, non parla. Allora il fratello entra nella cella di Poimen e gli fa: che c’è abba P? Questo è venuto apposta per te, perché non gli parli? Così risponde Poimen: «Egli è di lassù e parla di cose celesti, mentre io sono di quaggiù e parlo di cose terrestri. Se mi avesse parlato delle passioni dell’anima, gli avrei risposto; ma se mi parla di cose spirituali, io non ne so nulla». Prima lezione: parlare soltanto di ciò che si conosce.

Seconda lezione. Un giovane andò a vivere con Teodoro, per essergli utile e imparare qualcosa. Ma quello non gli diceva mai niente e non si faceva aiutare: abba T, fai tutto tu, non mi dai niente da fare, perché? Ancora niente, sempre niente. Allora il giovane chiede agli anziani: sono andato da abba T, ma è come se non mi vedesse nemmeno… Gli anziani vanno da Teodoro a chiedere spiegazioni e lui risponde così: «Sono forse il superiore di un cenobio, da dargli ordini? Finora non gli ho detto nulla, ma, se vuole, può fare anche lui ciò che vede fare da me». Seconda lezione: insegnare, se mai, con l’esempio.

Terza lezione. Un anziano di Scete era ancora molto forte, «ma non molto preciso nel ricordare le parole». Va da Giovanni Kolobos, quello gli dice qualcosa, lui torna nella sua cella e non se lo ricorda più; ritorna da Giovanni, ascolta, back to the cella, zac, dimenticato. Repeat. Alla fine lascia perdere. Dopo un po’ incontra Giovanni e gli fa: «Abba G, sai che mi sono di nuovo dimenticato ciò che mi avevi detto, ma per non disturbarti non sono più venuto». Allora Giovanni gli dice di prendere una lucerna e di accenderla, poi di portarne altre dieci e di accenderle con la prima. «Forse che la lucerna ha subito qualche danno per il fatto che da essa hai acceso le altre lucerne?» chiede Giovanni. No, vero? E conclude: «Così neanche Giovanni: anche se l’intera Scete venisse da me, non mi sarebbe di ostacolo alla grazia di Dio. Perciò vieni quando vuoi, senza farti alcuno scrupolo». Terza lezione: condividere sempre la conoscenza, che non si consuma.

Terza lezione e mezza: accettare le lezioni1.

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  1. Spunti da Graham Gould, La comunità. I rapporti fraterni nel deserto, traduzione di G. Dotti, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2001.

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Fra l’insopportabile e il pesante (Dice il monaco, CIII)

Dice un monaco cisterciense del XII secolo, forse uno degli immediati successori di san Bernardo nella carica di abate di Clairvaux:

Quando l’uomo abituato al bene pecca in modo grave, dapprima la cosa gli sembra così insopportabile che gli pare di scender vivo all’inferno. Ma con il passare del tempo la cosa non gli sembra più insopportabile, e tuttavia gli pare pesante; e fra l’insopportabile e il pesante, non è piccolo il mutamento di livello. Un poco ancora e la giudica lieve; colpito ripetutamente, non avverte più le ferite e non bada più alle sferzate. […] In un breve lasso di tempo, poi, non solo non sente, ma addirittura prova piacere, gli diventa dolce ciò che gli era amaro e quel che era aspro si fa gradevole. Quindi, è condotto alla consuetudine: così non solo ne prova piacere, ma lo prova ripetutamente e non può più contenersi. Alla fine non può davvero esserne più strappato, perché la consuetudine si trasforma in natura, e ciò che prima era impossibile fare, ormai è impossibile contenere. È così che si scende, anzi, si cade, da Gerusalemme a Gerico: in questo modo si procede verso l’allontanamento da Dio e verso l’indurimento del cuore. A questo punto il peccatore puzza, è di quattro giorni [come il corpo corrotto di Lazzaro].

♦ Anonimo pseudo-bernardiano del XII secolo, La coscienza, 4, in: La sapienza del cuore. La coscienza al cuore della vita spirituale in alcuni testi monastici del XII secolo, a cura di R. Larini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 1997, pp. 136-37.

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Fantasilandia (Dalle lettere: Montini a Merton)

«Sono convinto che mi adatterei perfettamente alla vostra vita, specialmente se questa è come viene descritta tra le pagine del suo bel libro L’Eremo, del quale ho appena finito di leggere con grande interesse la parte dedicata alla vita eremitica.» Così scrive Thomas Merton, nel giorno di Natale del 1952, ad Anselmo Giabbani, allora priore generale di Camaldoli. L’attrazione di Merton, trappista, per la solitudine, per una scelta monastica di più intensa contemplazione, veniva da lontano e ha lasciato innumerevoli tracce nei suoi Diari (che non ho ancora letto). All’incirca nel quinquennio 1950-55 tale attrazione conobbe una fase particolarmente acuta, che si tradusse in alcuni gesti concreti, seppur senza esito, e in uno scambio epistolare con vari religiosi di cui il volume curato da Mario Zaninelli dà esauriente conto1. La vicenda, che vide un primo orientamento verso i Certosini e uno successivo, molto più deciso, verso i Camaldolesi, merita un più ampio approfondimento, qui mi preme per il momento evidenziare una lettera che Giovanni Battista Montini, da meno di un anno arcivescovo di Milano, indirizzò a Merton il 20 agosto 1955, e che non esiterei a definire un capolavoro.

Il futuro papa rispondeva a una lettera di qualche mese prima nella quale lo stesso Merton gli aveva espresso apertamente le sue «difficoltà vocazionali» e il suo desiderio di lasciare l’abbazia di Gethsemani e i cisterciensi e di approdare a Camaldoli. La lettera di Merton era stata preannunciata a Montini da d. James Fox, abate di Gethsemani, che si era manifestato più volte contrario al «trasferimento» e ne aveva anche ostacolato qualsiasi mossa preparatoria: «Padre Louis [nome di religione di Thomas Merton] pensa che io non dia al suo caso la sufficiente attenzione, Proprio oggi abbiamo parlato per oltre un’ora e un quarto, e questa non è la prima volta. Gli ho detto che necessito di più tempo per valutare tutto bene, ma al momento mi sembra che ci sia più personalismo che grazia, più autosoddisfazione che ricerca di Dio».

Montini esordisce riferendo di aver meditato a lungo sulla questione («La ricerca di un bene maggiore è sempre cosa che merita grande attenzione»), accennando anche a un certo «timore riverenziale» nel rivolgersi a una personalità quale quella del noto scrittore «Father Merton». Ci sono poi gli impegni diocesani che lo assorbono, le «occupazioni incessanti» che consumano il suo tempo, «ma oggi scrivo», grazie anche alla visione del paesaggio della «bella pianura padana» (Montini scrive da Gussago, negli ambienti che avevano ospitato proprio un monastero camaldolese). Dare consigli è un’impresa che spesso sopravanza le possibilità umane, e tuttavia… Anzitutto la vita contemplativa «non ha ancora, in Italia, una espressione piena», Camaldoli è un centro di luce, ma la strada da fare è ancora molta. In secondo luogo se si desse corso a un eventuale trasferimento «molte anime sarebbero sfavorevolmente impressionate» (era la preoccupazione primaria dell’abate Fox: se Merton se ne va, pessima pubblicità per Gethsemani e per i trappisti americani). Il bene che Merton ha prodotto con i suoi scritti sarebbe «rovinato».

Queste, tuttavia, sono motivazioni estrinseche, riconosce Montini, sui più profondi aspetti spirituali personali «io debbo tacere. Troppo poco io conosco per parlare, per consigliare.» Due suggerimenti, però, sente di poterli dare. Ed è qui che, se posso permettermi, Montini piazza un formidabile uno-due, che Merton apprezzerà e incasserà quasi con gratitudine. Un paragrafo conclusivo cesellato con una delicatezza che pure non lascia scampo, una lezione che forse valica i confini della questione monastica da cui trae spunto. Il primo suggerimento, scontato, è quello di rimettersi al discernimento del suo abate: l’umiltà è sempre un’ottima strada per conoscere la volontà di Dio (quella volontà per manifestare la quale «Dio non ci manda un telegramma», nelle parole dell’abate Fox).

«L’altro è quello che riguarda l’insoddisfazione che spesso accompagna le anime desiderose di perfezione circa i mezzi impiegati per ottenerla. Io dico soltanto che questa insoddisfazione non può essere criterio unico per il governo pratico della propria vita, specialmente quando questa ha già fissato uno stato già favorevole alla perfezione. Bisogna anche ricordare che la perfezione non consiste nelle circostanze che la favoriscono, ma piuttosto nella carità dell’anima che la cerca; e che la ricerca, ad un dato momento, non si rivolge alla modifica delle condizioni esteriori di vita, ma alle condizioni interiori di sentimento e di orientamento spirituale. Di solito nessuno gode della conquista di condizioni conformi ai propri sogni e ai propri piani; circostanze provvidenziali cambiano il programma pratico della nostra vita; e bisogna alla fine amare e servire quella forma di vita che le vicende provvidenziali del nostro pellegrinaggio ci impongono, lasciando desideri di cambiamento che allontanano il cuore dalla realtà morale presente per trasferirlo in un regno di fantasia.»

Insomma, rimani dove sei, Thomas, pregherò per te e tu ricordami nelle tue preghiere.

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  1. La solitudine dell’eremo. Thomas Merton e i camaldolesi, a cura di M. Zaninelli, Nerbini 2018.

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Edificazione domenicana: sei storie dalle «Vitae Fratrum»

  1. A san Domenico che stava guadando l’Ariège, nei pressi di Tolosa, «nell’arrotolarsi la tonaca alla cintura gli caddero nel fiume i libri che aveva in seno». Non se ne lamentò, anzi, lodò il Signore per l’accaduto, come faceva per ogni cosa. Tre giorni dopo un pescatore li ripescò, «asciutti come se fossero stati custoditi con somma cura in qualche armadio: cosa oltremodo meravigliosa, perché quei libri non avevano alcuna protezione, né di panno né di pelle». (90)
  2. Una notte san Domenico scorse il diavolo che si aggirava per il convento. Che ci fai qui, maledetto?Ne approfitto, rispose quello. Nel dormitorio «li [i frati] faccio dormire troppo ed alzarsi tardi… E poi, quando posso eccito in loro stimoli carnali e fantasie»; in chiesa li faccio arrivare in ritardo e «li faccio distrarre mentre pregano»; chi c’è poi in refettorio «che non mangia troppo o troppo poco»; e il parlatorio infine «è tutto mio: è qui che si ride, si schiamazza e si fanno discorsi al vento». Allora il santo lo trascinò nella sala capitolare. Ah, no! Disse il diavolo. Qui i frati confessano le loro colpe, qui vengono accusati, qui fanno penitenza e vengono assolti, «questo luogo è per me un inferno». (101)
  3. In viaggio nei dintorni di Besançon, un giorno, il beato Giordano di Sassonia cadde ammalato. Era a letto, tormentato dalla febbre e dalla sete, quando gli si presentò un giovane, «con una salvietta al braccio, come se fosse un cameriere», che gli offrì da bere: Bevi, è buono, ti farà bene. – Non ci penso nemmeno, rispose il beato, e il Maligno si dissolse. (148)
  4. Fatta la confessione, in vista della Comunione del giorno successivo, un novizio del convento di Losanna se ne andò a dormire sereno. Appena addormentato gli si presentò il diavolo: Sì sì, dormi, dormi, ma io c’ho qui un foglietto con le colpe che non hai confessato… Dai, fammi vedere, disse il novizio. See, buonanotte, replicò il diavolo, e scomparve. «Ma inciampò nel vaso dell’acqua santa ch’era lì e il foglio gli cadde. Il frate allora lo raccolse in fretta e…» Al risveglio, supplemento di confessione, e tutto fu sistemato. (216)
  5. Salamanca, 1252. Un professore di filosofia va sentir messa dai domenicani. Alla fine, scoppiato un temporale della m…, il sottopriore lo invita a pranzo. Poi, visto che la pioggia non cessa, gli presta una cappa da frate per tornare a casa: Ah ah, maestro Nicola, vi siete fatto frate! – Eh sì, proprio così, come no! ridacchia il professore, e per tutto il resto della domenica ci scherza su con studenti e conoscenti. Di notte, però, lo prende una febbre tremenda e ode una voce: «Credi forse che io esiga rispetto ed onore solo per le persone dei Frati Predicatori e non anche per il loro abito?» Il mattino dopo il professor Nicola diventa fra Nicola. (238)
  6. «Dotato di bella voce per il canto, adatto all’insegnamento, capace di scrivere e di dettare, buon predicatore, di bell’aspetto e di fascino», c’era un frate che volle lasciare l’Ordine per fare carriera, «come si sussurrava», presso un’abbazia di canonici regolari. Esattamente un anno dopo che, pieno di sé, ebbe svestito l’abito avvenne che, proprio in uno degli ambienti di quell’abbazia, «alcuni si esercitassero al tiro a segno con l’arco». Una freccia andò fuori bersaglio, rimbalzò contro una parete e si conficcò in un occhio dell’ex frate. «Nessun rimedio gli valse.» (403)

Le cinque storie sono tratte da: Storie e leggende medievali. Le «Vitae Fratrum» di Geraldo di Frachet o.p., traduzione e note di p. Pietro Lippini o.p., Edizioni Studio Domenicano 1988. Composta tra il 1257 e il 1260, e successivamente ampliata, l’opera fu realizzata su iniziativa di Umberto di Romans (che l’approvò nel capitolo generale di Strasburgo del 1260), «prima che l’oblio, che già molte cose ha cancellato dalla mente dei frati, non finisca per seppellire ogni cosa». Così Geraldo, il compilatore incaricato da Umberto, conclude la sua prefazione: se il lettore troverà qualcosa di buono in questo libro, il merito ovviamente sarà del Signore; se invece non gradirà, ricordi che non tutti hanno gli stessi gusti, e «non stronchi il mio lavoro con rabbia e disprezzo. Il disprezzo è proprio di chi crede impossibili le cose meravigliose e spregevoli quelle edificanti».

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La schiuma delle parole: i certosini e i libri

Sull’ultimo numero di «Benedictina» è apparso un articolo molto interessante della studiosa Emanuela Garibaldi dedicato al ruolo dei libri e della lettura all’interno dell’ordine certosino, con particolare riguardo agli aspetti pratici e normativi1. Lo studio si estende dalle prime scritture normative, le Consuetudines Cartusiae del priore Guigo I, del 1127, attraverso le varie stesure degli Statuti, fino agli Annales ordinis Cartusiensis del priore Innocent Le Masson (1627-1702).

Sin da subito è chiaro come il libro sia centrale per la vocazione certosina («oggetto privilegiato nella propria formazione intellettuale e spirituale»), orientata al distacco dal mondo e alla contemplazione delle «cose divine»; libro da leggere, da trattare con somma considerazione, ma anche libro da ricopiare: il monaco, scrive infatti Guigo, «riceve dalla biblioteca [de armario] due libri da leggere. Riguardo ad essi gli viene ordinato di prestare tutta l’attenzione e la cura a che non vengano sporcati né dal fumo, né dalla polvere, né da qualunque altro tipo di sporcizia. Vogliamo, infatti, che i libri, quale eterno cibo delle nostre anime, siano custoditi con la massima cautela e con il massimo impegno, affinché, dato che non possiamo predicare la parola di Dio con la bocca, lo facciamo con le mani. Quanti sono, infatti, i libri che ricopiamo, altrettanti araldi della verità in vece nostra ci sembra di fare»2.

Cautela e impegno massimi anche perché i libri sono pochi e costosi da produrre, in termini di materiali e di tempo, tanto che nei testi legislativi compaiono assai presto disposizioni riguardanti il loro possesso, il prestito e la mancata restituzione. Anzitutto il possesso che non può mai in alcun modo essere individuale, bensì sempre e soltanto del monastero, un legame che rimane inscindibile anche in caso di prestito (per esigenze di copiatura) o di temporaneo spostamento (in seguito a viaggi, soprattutto di priori). La mancata restituzione, poi, è trasgressione tutt’altro che lieve: «Il XV secolo è costellato di ordinationes capitolari inerenti a diatribe legate alla proprietà di beni librari». Gli scambi e le delibere vengono discusse nel Capitolo annuale di Grenoble e non sono cose da trattarsi con leggerezza: c’è traccia ad esempio del priore della certosa di Capri che nel 1423 si dimentica di portare i libri che doveva restituire ai monaci di Villeneuve-les-Avignon, o il denaro corrispondente al loro valore, e non è nemmeno la prima volta: gli viene quindi imposta l’astinenza dal vino. In certi casi le pene per i «crimini librari» possono arrivare alla sospensione dal proprio ufficio o addirittura all’incarcerazione (occorsa nel 1426 a un monaco di Valbonne per aver sottratto una Bibbia e un salterio già promessi ad altra certosa).

Va da sé che il punto di svolta è rappresentato dall’invenzione e diffusione della stampa, ma, se l’ansia per la penuria dei libri si stempera (ancorché lentamente), non diminuisce la preoccupazione per la correttezza dei testi sui quali i monaci pregano, studiano o meditano, che anzi si acuisce in seguito all’esplosione della Riforma e ai risvolti anche librari che assume. Il tempo che prima era dedicato alla copiatura si riversa, per così dire, in quello riservato alla lettura; attenzione, però: la maggiore disponibilità non deve tradursi in distrazione o pericolosa bramosia di sapere. Per dire, sono proibite tutte le edizioni delle sacre scritture curate da Erasmo («contrarie alla religione certosina»); viene scoraggiato lo studio eccessivo del greco («Vi sono infatti alcuni che […] affermano anche che nessuno possa giungere alla vera conoscenza e comprensione delle Sacre Scritture se non è istruito nella lingua greca. E così trascorrono il tempo concesso per le letture sacre, cedendo a una certa curiosità d’animo, nelle lettere greche, oltre che in quelle ebraiche»); va bene lo studio, soprattutto per i monaci maturi e formati, ma alcune materie vanno evitate, in primis l’alchimia e l’astrologia («Ingiungiamo solennemente, pena la reclusione, che [il monaco] non si immischi nelle previsioni fallaci dell’astronomia», 1462), ma anche in certa misura la medicina e il diritto (che spinge a occuparsi di questioni cavillose e infruttuose).

Da tali preoccupazioni derivano così elenchi di libri «giusti» e di edizioni corrette, l’introduzione dell’approvazione del priore generale per la stampa di testi liturgici, il divieto di porre aggiunte o correzioni in margine ai libri concessi, l’adozione delle disposizioni dell’Indice di Paolo IV (1559) e di quelli successivi, l’obbligo per i padri visitatori di controllare i libri presenti nelle biblioteche e nelle celle dei monasteri («Ordiniamo che i visitatori di ciascuna Provincia, nonché i convisitatori, quando visitano le case a loro affidate, verifichino i libri conservati sia nelle singole celle sia nelle biblioteche comuni, e che lo facciano con la massima cura possibile», 1567); le grandi imprese di pubblicazioni uniformi dei testi fondativi e statutari. E così via, in buona sostanza fino al XVIII secolo.

D’altra parte, la lettura del monaco certosino ha sempre e soltanto uno scopo, ben chiaro anch’esso sin dalle origini. Lo afferma Bernardo, priore di Portes, nella famosa lettera a un monaco recluso, del 1128-30: «Accostati alla lettura devotamente e con desiderio spirituale, affinché tu possa udirne qualcosa che valga come esempio per la tua conversione, oppure, come il Signore si degnerà di fartene dono, tu possa essere ristorato dalla dolcezza dei discorsi e dei misteri divini. Leggi tutte le sacre Scritture di cui potrai disporre con questa diligenza e con tale intenzione, non per gonfiarti di sapienza, ma per essere edificato nella carità». E con una bella immagine lo suggerisce lo stesso Guigo, in una lettera sulla vita solitaria dei medesimi anni: «Si dedica [il monaco] alla lettura, soprattutto di opere canoniche e religiose, nelle quali conta più il midollo del significato che la schiuma delle parole [in quibus eam magis occupat medulla sensuum quam spuma verborum]».

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  1. Emanuela Garibaldi, «Eterno cibo delle nostre anime»: la disciplina della lettura nelle fonti normative dell’ordine certosino, in «Benedictina» 69 (2022), n. 1-2, pp. 55-93.
  2. Le consuetudini di Guigo I, XXVIII, 3-4, in Fratelli nel deserto. Fonti certosine II. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, a cura di C. Falchini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2000.

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Uomo avvisato, mezzo salvato (Dice il monaco, CII)

Dice Pacomio, il padre del monachesimo cenobita, intorno (diciamo) al 330:

Ti prego vivamente di avere in abominio la vanagloria. La vanagloria è l’arma del diavolo. In questo modo fu ingannata Eva. (Il diavolo) le disse: «Mangiate il frutto dell’albero, si apriranno i vostri occhi e diventerete come dei». Ascoltò, pensando che fosse la verità, inseguì la gloria di Dio e le fu tolta anche quella umana. E anche tu, se insegui la vanagloria, essa ti rende estraneo alla gloria di Dio. Ma per Eva non era stato scritto per avvertirla di questa guerra, prima che il diavolo la tentasse; per questo il Verbo di Dio venne, si incarnò nella vergine Maria per liberare la stirpe di Eva. Tu invece, riguardo a questa guerra, sei stato ammaestrato nelle sante Scritture dai santi che ti hanno preceduto. Perciò, fratello mio, non dire: «Non ne avevo sentito parlare», oppure: «Non mi era stato detto nulla di questa cosa né ieri, né l’altro ieri».

♦ Pacomio, Catechesi, 24, in: Pacomio e i suoi discepoli. Regole e scritti, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1988, pp. 214-15.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 3/3)

RegolaDelleRecluse (la prima parte è qui, la seconda qui)

Tra le molte suggestioni prodotte dalla lettura della Regola delle recluse1 ce n’è una di ordine – oserei dire – psico-teologico che mi ha attirato particolarmente.

Analizzando i rischi che la reclusa corre ascoltando dicerie e pettegolezzi che il Tentatore, per tramite di qualche persona solo apparentemente pia, le offre alla finestra della cella, Aelredo dice che, «ritornata alla quiete, la poveretta rimugina nel suo cuore, trasformate in immagini, le cose che le sue orecchie vi avevano inserito, e trasforma in incendio violento quel fuoco che era stato attizzato dalle chiacchiere precedenti. Nei salmi balbetta come fosse ubriaca, nella lettura le si appanna la vista, barcolla nella preghiera». Il punto decisivo mi pare essere quel «trasformate in immagini», che sposta il problema sulla dimensione, appunto, visiva. Dimensione che rimanda a uno degli aspetti costitutivi della reclusione volontaria: ci si rinchiude per non vedere il «mondo presente» e quindi poter intravedere quello «futuro», si oscura l’aldiquà per gettare una prima luce sull’aldilà. O, ancora, si esclude il «visibile» per affacciarsi all’«invisibile».

Già Pietro il Venerabile, indirizzando la sua lettera sulla vita eremitica (la 20 del suo epistolario) al monaco Gisleberto, gli augura «nell’angustia della cella la vastità del cielo»; mentre Guglielmo di Saint-Thierry, scrivendo ai fratelli certosini, nella sua Lettera d’oro (31), ricorda che «la porta chiusa non significa nascondiglio, ma ritiro segreto», e che «la dimora del cielo e quella della cella si assomigliano; poiché, come il cielo e la cella mostrano una qualche parentela nel nome, così ce l’hanno anche nella pietà. Sia “cielo” che “cella” sembrano derivare il loro nome da “celare”; e quello che si cela nei cieli, si cela anche nelle celle; quello che si fa nei cieli, si fa anche nelle celle».

Ora, nel corredo standard del materialista il «vedere», con riferimento preciso al «visibile», è un’acquisizione non più rinunciabile: si deve poter vedere, in ogni declinazione possibile, dall’esperienza dei sensi all’esplorazione geografica, dal controllo delle fonti all’esperimento scientifico, fino al giornalista che «va a vedere» il fatto prima di riferirne, ecc. Nondimeno il materialista non è insensibile ai pericoli dell’interferenza, del rumore di fondo che inquina la percezione, e quindi osserva la reclusione volontaria (stravolgendone il significato propriamente cristiano) come strumento di depurazione del «segnale», alla ricerca di ciò che non è immediatamente visibile. Ma di quale «segnale» si tratta?

Aelredo non si stanca di mettere in guardia dagli attacchi che provengono dall’interno, anche quando si sia chiusa la porta all’esterno, perché «il male che portiamo incluso nelle nostre membra spesso risveglia istinti temibili» (il corsivo è mio, con una speciale considerazione per quell’«incluso»); e Pietro il Venerabile è ancora più esplicito quando ricorda che «il mondo, passando per un accesso familiare [cioè, con tutta evidenza, l’immaginazione] si offre agli occhi dell’anima con tutte le sue cose», e così rivela un «invisibile» ben diverso da quello che il recluso si aspettava: «In questo modo, mentre imperversano nelle zone arcane della sua mente sensazioni di cose svariate, poiché l’animo non vede niente di quello che pensa se non una celletta vuota, dormicchiando per la noia, cerca rimedio a questa noia miserevole non in Dio ma nel mondo, non in sé ma fuori di sé; il che gli procura un danno ancora più grave».

Istinti temibili, noia, zone arcane della mente: concetti ed espressioni quanto mai familiari al materialista novecentesco, anche quello modestamente attrezzato, no?

(3-fine)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.

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