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«Il sole nella notte», di Bernardo Olivera

SoleNellaNotte Considero salutare, per il mio modesto impegno di comprensione, misurarmi con testi come Il sole nella notte di Bernardo Olivera1. Un testo impegnativo e istruttivo, il cui argomento si estende molto oltre la mia capacità di riferirne (e in fondo anche di accoglierne le premesse). Come infatti recita il sottotitolo, il libro del monaco argentino, abate generale dei Trappisti dal 1990 al 2008, parla di «mistica cristiana ed esperienza monastica», con particolare riferimento alla tradizione di autori e autrici cisterciensi.

Cinque tappe. Anzitutto una ricognizione del «contesto culturale» moderno e post moderno – che si può condividere o no – nel quale si situa il «fatto mistico», poiché se la sua sorgente è eterna e fuori del tempo, la sua esperienza è attuale e costantemente presente, vissuta da persone che non sono estranee al proprio tempo («Tutti gli uomini – ed i monaci e le monache non fanno eccezione – vivono, decidono ed agiscono a partire da un determinato mondo culturale»). Un tempo, questo, caratterizzato dall’autonomia dell’individuo e dal razionalismo «in opposizione ad ogni forma di religione o di fede»; un tempo di relativismo, assolutismo scientifico, «deificazione» dell’io e rifiuto di Dio, che nondimeno manifesta una potente ricomparsa della sete di mistero.

A fronte di questa «sete», secondariamente, emerge in tutta la sua efficacia la lezione della tradizione monastica: «Se noi, dopo oltre nove secoli di storia, ancora ci siamo, è perché i nostri primi Padri e Madri avevano, in gradi diversi»: una capacità di trascendenza sperimentata pienamente; «un notevole dono di riflessione dell’esperienza vissuta»; «una grande abilità nel fissare l’esperienza per iscritto e dare vita a comunità e gruppi depositari dello stesso patrimonio trascendente, teologale e mistico».

In terzo luogo sono necessari alcuni «chiarimenti preliminari». Il mistero, cioè il disegno divino, è una dimensione ineludibile dell’esistenza («Lo stesso essere umano è mistero ed è stato creato per il mistero»). In realtà, da un punto di vista cristiano, è una circostanza multidimensionale, infatti è: eterno, libero, intelligente, amoroso, storico, personale, comunitario, attuale, liturgico, irrevocabile, trascendente, e si illumina nel Cristo. La mistica rappresenta «l’apice di incontro tra l’Essere assoluto e l’uomo». I grandi mistici e le grandi mistiche fanno esperienza del mistero in modo permanente, ma «in forma passeggera e in grado minore» le esperienze mistiche «sono assai più comuni di quanto si possa immaginare»: ogni battezzato vi accede, più o meno consapevolmente. Questa esperienza mistica è «un modo particolare di vivere la fede» e può declinarsi in molte forme: essenziale, sponsale, contemplativa, apostolica, cosmica, interpersonale, ordinaria, casuale.

La quarta tappa (dedicata a Gesù Cristo, «il mistico per eccellenza») e la quinta (che affronta nel dettaglio i vari aspetti dell’esperienza mistica come è stata tramandata dai monaci e dalle monache cisterciensi: Bernardo, Aelredo, Baldovino di Ford, Guglielmo di Saint-Thierry, Beatrice di Nazareth, Hadewijch di Anversa) sono le più lunghe e complesse: è saggio che non ne dica nulla.

Salutare, dicevo. Perché è qui che posso in qualche modo misurare l’efficacia della mia posizione, che sicuramente mi è già capitato di esporre. Io non credo, infatti, nel mistero, e questa affermazione renderebbe del tutto priva di senso la lettura delle pagine di Bernardo Olivera. Sì, d’altra parte questo non significa che io non creda a chi dice di credervi, o di farne esperienza. Cosa sono queste persone: illuse, suggestionate, paralizzate dall’idea del nulla, allucinate, folli? Tutte categorie da usare con estrema cautela, anzi, da non usare affatto (anche senza considerare la finezza di pensiero che si può facilmente rintracciare negli scritti citati).

È lo stesso p. Olivera che mi invita a riflettere, quando dice: «Sarà necessario anche ascoltare la voce degli uomini e delle donne del nostro mondo laico e secolarizzato. È un dato di fatto che molti, che si dichiarano atei o agnostici, cercano Dio, sia pure senza esserne coscienti, nelle esperienze umane più profonde. Ed è precisamente l’esperienza dell’amore [fra l’uomo e la donna] (le parentesi quadre a questa specificazione che l’autore fa dell’amore le ho messe io, che sono laico e secolarizzato) ad avvicinarli all’esperienza religiosa. […] Un’esperienza profondamente umana è potenzialmente un’esperienza religiosa». Mi perdonerà il p. Olivera se gli chiedo di non interpretare il mio rispettoso silenzio davanti a quel sia pure senza esserne coscienti e a quel potenzialmente come un silenzio-assenso.

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  1. Bernardo Olivera, Il sole nella notte. Mistica cristiana ed esperienza monastica, presentazione di S.F. Ordóñez, traduzione a cura delle Trappiste di Valserena, Àncora 2003 (ediz. orig. Sol en la noche, 2001).

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«Alla mercé della propria fragilità»

Monaci che parlano di monaci: si tratta forse di uno dei pochissimi casi nei quali, a differenza della maggior parte dei discorsi autoreferenti (scienziati che parlano di scienza, musicisti che parlano di musica, e così via), il tempo subisce la massima dilatazione e i Padri del Deserto diventano praticamente nostri contemporanei: abba Poemen è lì che intreccia stuoie sotto il sole cocente e intanto risponde alle nostre domande su quel che dobbiamo fare. O meglio, il discorso viene continuamente ripreso e pressoché nulla di ciò che è stato viene escluso dalla considerazione presente. È del tutto normale, ad esempio, che in un articolo dell’abate generale dei cisterciensi della comune osservanza, datato 2013, si legga una frase come questa: «Forse già con la separazione tra l’Ordine Cistercense della Comune e quello della Stretta Osservanza abbiamo rotto qualcosa di vitale della nostra identità, del nostro carisma» (abbiamo rotto, si noti, non si ruppe). E infatti, due frasi più in là pare che la controversia con Cluny sia cosa del mese scorso: «La Carta Caritatis appartiene al nostro carisma, forse anche più del desiderio di voler osservare meglio che non a Cluny la regola di san Benedetto».

Questa «continuità» del monachesimo, per lo meno di quello novecentesco, è uno dei suoi aspetti più peculiari e che più mi affascinano. Non perché il passato «non passi», bensì perché esso fa sempre comunque parte del discorso. E mi chiedo inoltre quali forme assuma il senso di comunità e di appartenenza che ne deriva. Un fiume che si ingrandisce, con il rischio forse che le acque siano sempre più lente, se non addirittura stagnanti: è una preoccupazione che mi è capitato di scorgere sovente nei testi dedicati alle «sfide» che il monachesimo contemporaneo deve affrontare, a riprova che la presenza vitale del passato non preclude che lo sguardo si diriga anche nella direzione opposta.

In questo senso trovo molto utile «Vita Nostra», la rivista dell’Associazione Nuova Cîteaux, perché ospita in ogni numero articoli di monaci e monache di oggi che si interrogano sulla loro forma di vita. Anche quando affrontano argomenti dei quali so ancor meno del solito, offrono quasi sempre spunti inattesi. Come Bernardo Olivera (ocso) che, introducendo un volume dedicato proprio al monachesimo nel XXI secolo, sintetizza così, non senza ironia, la sua visione: «Noi monaci e monache abbiamo senza alcun dubbio una lunga storia da raccontare, e con l’aiuto di Dio, abbiamo anche una storia da creare. Nel purgatorio esiste un luogo speciale riservato per i monaci e per le monache, di ieri e di sempre, che peccano per fedeltà servile alla tradizione invece di rischiare e scommettere sulla creatività per comunicare la stessa tradizione arricchita», e individua in rifondazione, rinnovamento e riforma le parole chiave per una «ri-evangelizzazione monastica» (ma, attenzione, «l’esperienza, nell’ambito della ri-evangelizzazione monastica ci insegna due cose: è più facile risuscitare un monaco morto che convertire un monaco vivo ed è più difficile far ragionare una monaca fondatrice che motivare una monaca “installata”»).

Da parte sua, l’abate generale Mauro Lepori, che citavo sopra, riassume così il suo pensiero: «La grande sfida del monachesimo dei nostri giorni è, come per tutta la Chiesa, la sfida della libertà della vocazione», e utilizza l’immagine della grande famiglia per sviluppare il tema della comunione, non soltanto dei confratelli di una casa, ma dei monasteri di una congregazione, di tutti i monaci del mondo, verrebbe da dire: «Le comunità che credono di andare molto bene perché hanno vocazioni, successo, ricchezze, e che per questo motivo credono di non aver bisogno delle altre comunità presto o tardi fanno cadute rovinose e catastrofiche. Chi funziona da solo funziona male». I monasteri di oggi sono il terreno ideale per la cultura e la pratica della comunione, a patto che si tratti di una scelta volontaria, poiché non esiste un’istituzione che la possa imporre: «Chi capisce, chi accetta e cerca aiuto sarà aiutato e andrà bene, anche se è messo a confronto con grossi problemi. Chi non lo vuole, chi preferisce camminare da solo, che si accontenta di ciò che è e che fa da solo, rimarrà realmente solo, alla mercé della propria fragilità e dei propri problemi».

Ma sta parlando soltanto ai monaci l’abate generale?

(Dom Mauro Giuseppe Lepori, L’avvenire del monachesimo e il ruolo dell’Alliance Inter-Monastères; dom Bernardo Olivera, Una visione monastica per il XXI secolo, in «Vita Nostra» IV [2014], 1.)

 

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