Un camion di mele (Schiacciare l’anima, pt. 4/5)

F4_le lassus_mini 2av.indd(la terza parte è qui)

«La vita religiosa, se è fervente, assomiglia molto a un sentiero di montagna. Molti errori vengono da un eccesso di zelo, insieme a una mancanza di discernimento. Per far procedere più in fretta i novizi talvolta ci si spinge nelle pratiche tradizionali al di là di quanto sia ragionevole, come se si volesse aiutare una pianta a crescere tirandola su per le foglie.» Con queste parole d. Dysmas de Lassus introduce il capitolo dedicato all’ascesi e alla rinuncia e alle loro pericolose deformazioni, pratiche e concettuali. È un capitolo, ai miei occhi, di grande rilievo e di grande equilibrio: l’equilibrio, anzi, gli equilibri di cui è fatta secondo il priore certosino la vita spirituale cristiana, sospesa com’è «tra due abissi, il nostro essere creature tolte dal nulla e l’infinito di Dio che ci attira a lui».

Stante lo scopo della sua ricerca, il priore si concentra maggiormente sul primo orlo dell’abisso, ribadendo anzitutto che non si può parlare di amore se non ci si considera capaci e anche degni di amore. L’umiltà è virtù centrale della vita monastica, ma non va spinta imprudentemente verso il totale annientamento di sé. «Noi non siamo nel vuoto», dice il priore, e aggiunge: «La creatura è stata tirata fuori dal nulla, esiste e quindi non appartiene al nulla». Una sana stima di sé, temperata quanto si vuole dalla consapevolezza della propria imperfezione (e qui si ci si può anche trattenere in ambito soltanto «umano»), è necessaria per un cammino di amore, di offerta, di rinuncia, e così via: «Se non sono nulla, la mia vita non ha senso». La precisazione del priore è fondamentale e mette in prospettiva pagine e pagine (di sottile fascino nichilista) spese sul totale oblio di sé: «Dire che noi non siamo nulla da noi stessi non vuol dire che non siamo nulla punto e basta. Un’insistenza unilaterale su quest’ultima espressione porta inevitabilmente a delle catastrofi, sia psicologiche che spirituali». (Catastrofi, come le si possa affrontare senza l’«appiglio» trascendente è forse il punto cruciale del «sentimento tragico della vita», la radice del «nostro bisogno di consolazione»?)

È importante tenere separata l’umiliazione dal risentimento, dall’amarezza, dal disprezzo patologico di sé, senza contare che, per essere chiari, «la vita ci offre sufficienti occasioni di essere umiliati, per cui è inutile e piuttosto pericoloso volerle provocare». D. de Lassus cita un anziano monaco di Montserrat che diceva a un novizio: «Non vale la pena di cercare le croci, il Signore le porta a domicilio», e, aggiornando, aggiunge: «Non è nemmeno necessario ordinarle!»

Anche la rinuncia va affrontata con attenzione e senza estremismi («Le penitenze di un eremita non sono di esempio per una comunità»), e ricordando sempre che si rinuncia a qualcosa per qualcos’altro, a un bene per un bene più grande. La spogliazione di sé, cercata o imposta, senza «un io ben stabile e solido», può portare alla totale aridità, all’angoscia del vuoto, a quello che il priore arriva a definire un «assassinio psichico».

La rinuncia consiste essenzialmente nell’eliminare l’inutile per fare posto al veramente utile – come quando si vuota un armadio di ciò che si è accumulato senza pensarci –, o ancora, più esattamente per il monaco, dire no «all’io più superficiale», dire sì alle piccole cose che si presentano ogni giorno per dimostrare a Dio il proprio indiviso amore.

«La vita offre costanti occasioni di rinuncia», conclude il priore, «inutile fabbricarne di nuove.» E, pensando ai novizi, a quelli di oggi in particolare, aggiunge che «la vera formazione consisterà nell’insegnare a sopportare con amore tutte le piccole rinunce della vita quotidiana: il vicino che canta male, il lavoro che mi dispiace, la levata del mattino, una parola non troppo gradevole, il tempo uggioso da una settimana, le mele che si mangiano da sei mesi perché ce ne hanno regalato un camion…»

(4-segue)

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