«Piante d’appartamento» (i «Capitoli» di Mauro-Giuseppe Lepori, pt. 2)

(la prima parte è qui)

Secondo Mauro-Giuseppe Lepori, abate generale dei Cisterciensi, tutte le «tradizioni veramente autentiche» del monachesimo possono prosperare ed essere trasmesse, possono parlare all’oggi, soltanto se mantengono il loro legame originario con la vita e la missione di salvezza di Gesù. L’obbedienza, ad esempio, che non è tanto un «valore» o una «virtù» in sé, bensì un riflesso, l’eco di quella di Gesù, venuto a fare la volontà «di colui che mi ha mandato»; o anche la stabilità, che è anzitutto permanenza presso Gesù in nome di tutti, ed echeggia lo stare di Maria presso la Croce, idealmente e fisicamente; o ancora la fraternità, la «vita in comune», in cui si incorpora il rapporto d’amore delle tre Persone che si allarga ben al di là della singola comunità1. «Questo valore profondo e vivo delle nostre tradizioni e osservanze», sottolinea d. Lepori, «vale per tutto, per ogni aspetto della nostra vita e della nostra vocazione. Questo vale per la povertà, vale per la vita fraterna, vale per la preghiera, vale per il silenzio, vale per il lavoro e per il modo in cui siamo invitati a vivere nel monastero ogni aspetto della nostra umanità.» Mi pare un punto fondamentale per evitare di svuotare di contenuto, o attribuirgliene altro, proprio quei tratti che sono alla base dell’attuale «fascino» della vita monastica.

È facile, tuttavia, e forse comprensibile, che siano quei tratti a essere selezionati e appropriati, quando l’abate stesso riconosce come ciò che spinge anzitutto verso i monasteri sia il grande bisogno di consolazione dell’«uomo contemporaneo». È l’instablità di giovani e meno giovani, il loro essere «fluttuanti e sballottati sulla superficie delle acque»2, che «rende la proposta di san Benedetto ancora più attuale, ancora più urgente, ancora più necessaria per consolare davvero l’uomo di oggi».

«Oggi», si domanda l’abate generale al centro della sua riflessione, «dobbiamo chiederci se abbiamo e se formiamo “anziani” che sappiano accompagnare le persone dissipate e dissipatrici che il mondo attuale produce in massa e che sono spesso gettate verso di noi dai flutti della società liquida, come naufraghi su una spiaggia sconosciuta. Siamo questi “anziani”, ci formiamo attraverso tutta la nostra tradizione monastica a questa maturità umana, stabile, pacifica, benevola, che può davvero trasmettere una vera consolazione all’uomo di oggi?»

Pur riconoscendomi dissipato, non credo che ciò che mi spinge verso i monaci e le monache sia il bisogno di consolazione (un terreno complicato, sul quale s’intrecciano aspetti, diciamo così, esistenzialistici e sociali), bensì l’aver intravisto un’alternativa e la nostalgia di tale alternativa: le precisazioni da fare qui sarebbero molte, alcune le ho fatte nel corso di questi appunti, altre le farò, ma, semplificando con un’immagine, è un po’ come camminare speditamente per strada, vedere oltre una recinzione qualcosa di inatteso, rallentare, lanciando un’altra occhiata, e infine fermarsi a osservare con sempre maggiore attenzione, dicendo tra sé: Ah, guarda, fanno così, bello, non immaginavo… Eh, sì, sarebbe l’ideale… Credo nondimeno di capire quello che vuol dire l’abate e penso che l’equilibrio tra ricerca di consolazione (di silenzio, di pace, di mistero) e comprensione di ciò che avviene realmente tra le mura di un monastero sia difficile e fragile: l’una rischia per così dire di infrangersi sull’altra: un «fatto» tipicamente umano come la consolazione contro un’aspirazione sovrumana come l’«inerenza totale a Cristo».

È d’altra parte lo stesso abate Lepori a ribadire, con una frase semplice e definitiva, che senza questo nesso tra monachesimo e adesione integrale a Gesù la fedeltà alla vocazione, il suo senso medesimo, sbiadisce: «Si è lì, si resiste, ma come quelle piante di appartamento che sono forse belle da vedere, ma che non hanno alcuna funzione o fecondità».

(2-fine)

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  1. «Senza la coscienza di queste dimensioni del nostro “vivere insieme”, la comunità si riduce a un rifugio intimistico, sempre più “borghese”, che non sarà mai abbastanza confortevole, nel quale ci garantiamo comunque degli spazi individualistici. […] Gesù ha legato la nostra responsabilità verso il mondo intero alla nostra responsabilità verso la nostra comunità. La dimensione della nostra responsabilità è il mondo intero, ma il campo in cui assumiamo questa responsabilità universale è il piccolo e quotidiano ambito della nostra comunità.»
  2. L’abate Lepori ha sviluppato questa immagine nel suo ultimo libro, Pecore pesanti e fratelli fluttuanti. La via di san Benedetto alla cura dell’altro, San Paolo 2018, sul quale ho preso qualche nota qui.

 

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