Ci sono due frasi nella Lettera a un religioso di Simone Weil1 che evocano la dimensione monastica della fede cristiana. In una il riferimento è esplicito, e anche un po’ ingeneroso, seppur comprensibile, considerando le circostanze e la data di stesura della Lettera (novembre 1942). Al punto 25, dedicato ai miracoli, Weil scrive che «la concezione corrente dei miracoli, o impedisce l’accettazione incondizionata della volontà di Dio, oppure obbliga a rendersi ciechi riguardo alla quantità e alla natura del male che esiste nel mondo – cosa facile, evidentemente, in fondo a un chiostro; e anche nel mondo, se si vive all’interno di un ambiente ristretto».
In fondo a un chiostro: c’è forse anche una punta di spregio («evidentemente»?) in questa espressione, che pure suona familiare e chiara alle mie orecchie. Non è forse facilmente immaginabile cosa significhi «in fondo a un chiostro»? Non mi sono seduto anch’io tante volte «in fondo a un chiostro» ad ascoltare il silenzio? Non ho pensato anch’io che lì, «in fondo a un chiostro», lontani e separati, la pace potesse essere più a portata di mano che altrove? Certo che l’ho pensato, sbagliando.
E qui soccorre, se così si può dire, l’altra frase, in cui il riferimento è indiretto; e quindi forse lo vedo solo io, sbagliando ancora. Al punto 11, che verte sui rapporti tra la verità e i riflessi che le varie tradizioni religiose, tutte ugualmente nel giusto, ne colgono, Weil scrive che «una religione si conosce solo dall’interno, come i cattolici giustamente non si stancano di ripetere ai non credenti». Qui penso si possa cogliere il limite anche di questa mia esplorazione, tutto sommato libresca, di un fenomeno che si può conoscere solo dall’interno. Più che per altre circostanze, nelle quali la rivendicazione è fatta senza autentiche ragioni, la vita in un monastero «si conosce solo dall’interno» (là dove «interno» ha un senso del tutto particolare), compreso il paradosso della viva presenza del mondo in fondo al vuoto silenzioso di un chiostro.
Non rimane che continuare ad ascoltare, chiedendo magari un analogo comportamento reciproco, che non liquidi la «non credenza» come un rimbalzare disperato e senza direzione nel vuoto cosmico, alla disperata ricerca di affermazione e soddisfazioni per il proprio io… Tra l’altro, ecco come prosegue Weil nel secondo brano: «È come se due uomini posti in due camere comunicanti, vedendo entrambi il sole attraverso la propria finestra e il muro del vicino illuminato dai raggi, credessero entrambi di essere l’unico a vedere il sole e che l’altro ne riceva soltanto un riflesso. La Chiesa riconosce che la diversità delle vocazioni è preziosa. Bisogna estendere questo pensiero alle vocazioni che sono fuori della Chiesa. Perché ve ne sono».
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- Simone Weil, Lettera a un religioso, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 20085.
Perché sbagliando? Personalmente, farei prima un distinguo. Il silenzio non è sinonimo di pace e viceversa. Sicuramente il silenzio (= assenza di rumore) può veicolare la pace. O, almeno, un certo tipo di pace. Se poi desideriamo connotare la pace come tranquillità d’animo (quasi imperturbabilità), allora questa – dopo un opportuno cammino – può esserci anche in mezzo al caos (così dicono i saggi). Ma ascoltare il silenzio, lo ritengo sempre un ottimo esercizio. E nel silenzio può accadere più facilmente che possa nascere un dialogo con il divino. Con il nostro divino. E allora, è anche facile che ci si possa commuovere in quel silenzio. E sono lacrime benedette
Penso che sia un “errore” considerare il chiostro come un rifugio, ed è questo lo “sbaglio” che mi attribuisco. Associo a quell’espressione, “in fondo a un chiostro”, un significato simile a quello del verbo “rintanarsi”, ed è qui che penso di sbagliare, ed è qui che applico la correzione del “non si può conoscere se non dall’interno”. Diciamo che tra le cose che faccio più “fatica” a comprendere è il modo in cui il mondo è presente, “si fa sentire” in quel silenzio. E l’ombra di un dubbio talvolta ricompare.