Due o al massimo tre («Monaci a tavola», di Nadia Togni)

L’occasione è troppo ghiotta per non definire assai gustosa la lettura di Monaci a tavola della ricercatrice storica e studiosa del monachesimo benedettino umbro Nadia Togni1. Il suo piccolo, solo all’apparenza, libro consente di ripassare molte cose circa i vari aspetti del rapporto tra monaci e cibo, di impararne molte altre e soprattutto di ascoltare commenti, ricordi e testimonianze sul tema dalla viva voce di un monaco e abate di lunghi studi e lunga esperienza. I vari capitoli del testo sono infatti punteggiati dalle conversazioni che l’autrice ha avuto con p. Giustino Farnedi, attualmente direttore e conservatore del complesso abbaziale di San Pietro a Perugia e del quale, in questo 2019, ricorrerà il 60° della professione monastica.

Piccolo solo in apparenza, dicevo, perché il libro affronta l’argomento in maniera esauriente da ogni lato, a partire dalle indicazioni, dagli orari e dalle misure contenute nella Regola di san Benedetto; per passare poi agli spazi (il refettorio, la cucina, la cantina) e agli strumenti (le stoviglie, il tintinnabulum), alle norme e alle tradizioni, agli «accessori» (la neviera e la ghiacciaia) e alle «specialità» (quelle «piccole» come l’acquaticcio, un vinello da pasto, e l’orzarella, una bevanda da prima colazione, e quelle «grandi», come la birra, i formaggi, il miele, gli amari e i mille dolci, soprattutto delle monache: sfogliatelle, palommelle, cavallucci, biscotti ricci, ’mpatigghie, ’nfasciateddi e, naturalmente, le minne di virgini).

C’è tutto, insomma. Informazioni di carattere storico si alternano a riferimenti archeologici: un’area che infatti produce risultati molto interessanti, compatibilmente con i fondi a disposizione, è quella dell’archeologia monastica, che esplora i siti delle cucine e che, in base allo studio dei reperti, ricostruisce regimi alimentari, abitudini, materiali usati, scambi di prodotti con zone limitrofe o lontane2; riletture mirate dei testi normativi si susseguono a risultati di indagini d’archivio3; e tra i puntuali commenti eruditi del p. Farnedi, che – non va dimenticato – è di Cesena e all’abbazia di Santa Maria del Monte ha mosso i primi passi monastici, spuntano poi qui e là i ricordi e gli aneddoti. Coloro che, come l’abate Farnedi, sono entrati in probandato da piccoli «hanno ricevuto un’educazione monastica, che riguardava tutti i momenti della vita all’interno della comunità», il cosiddetto galateo monastico: «Noi più piccoli guardavamo e imparavamo dai monaci come dovevamo comportarci; venivamo continuamente corretti soprattutto sulle maniere sbagliate di mangiare» – no i gomiti, no i morsi, no rumori con la bocca, no non mi va, no porzioni troppo abbondanti, no «scambi di merce», e soprattutto no avanzare e no sprecare: «Proprio per questo nel monastero il cibo era spesso servito in piatti già pronti e confezionati in cucina, come la carne con il suo contorno, l’uovo al tegamino servito negli appositi padellini nei quali era stato cotto, la frutta e le noci, due o al massimo tre, schiacciate in cucina e servite con il loro guscio frantumato: dovevamo usare tutta la nostra pazienza e l’abilità delle dita per ricercare ogni più piccolo pezzettino di noce».

Infine, tra i tanti monaci citati in queste pagine – cellerari, ortolani, spezieri, cuochi, vinai, ecc. – una menzione non può essere negata a f. Isidoro Garattoni, cuoco e ortolano a Cesena, che i novizi chiamavano il cavaliere dello stracchino: «Lo ricordo ancora scendere a piedi in città con la sua grande sporta a fare la spesa per la comunità. Era abilissimo nel preparare piatti succulenti con povere cose, come le sue famose polpette nelle quali di carne c’era solo l’odore, ma ben farcite, tenere e gustosissime».

Rivendicando l’equilibrio, la misura, la sanità, la stagionalità, la territorialità, la creatività, la democraticità, la qualità «bio», e anche la bontà, della cucina monastica, perlomeno di quella di un tempo, il p. Farnedi ribalta il senso del noto modo di dire, e a questo ribaltamento si può affidare il commento conclusivo a questa assai piacevole lettura: «La cosa più bella nella vita di un monastero è che il monaco non deve mai scegliere il pasto da un menù, ma mangia ciò che gli viene servito, secondo la classica massima “mangià ciò che passa il convento”».

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  1. Nadia Togni, Monaci a tavola. La Regola di san Benedetto e le consuetudini alimentari, Tau Editrice 2018.
  2. «Gli scavi archeologici condotti a San Vincenzo al Volturno in questi ultimi decenni – ad esempio – hanno portato al ritrovamento della cucina monastica dell’inizio del secolo IX. Questa era a pianta quadrata con, al centro, un grande banco di cottura in muratura; alla base si aprivano quattro arcate, dove erano collocate le braci accese che riscaldavano la superficie del banco. […] Su un lato era disposta una mensa ponderaria, cioè la “tavola dei pesi”, di età romana, usata per pesare gli ingredienti e le quantità di cibo da cuocere; questa era costituita da un blocco di marmo con delle profonde cavità di dimensioni diverse corrispondenti alle diverse capacità di misura…», pp. 130-31.
  3. In un manoscritto seicentesco, conservato presso l’Archivio storico di San Pietro a Perugia, insieme con varie notazioni personali e liturgiche un anonimo monaco ha trascritto due ricette, quella dello Zucchero a cottura di bottone e quello del Caffè di Germania, che si fa così: «Ceci rossi [bacche di caffè non tostato], libbre 3; amandole amare, once 3; ginebro fatto bene. Si abbrustolischi ogni uno da sé e s’impasti unitamente e sarà fatto», pp. 194-95.

 

1 Commento

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Una risposta a “Due o al massimo tre («Monaci a tavola», di Nadia Togni)

  1. alessandrogemmiti

    ………….Slurrrrrrp………. 🙂

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