«Per così dire quasi di contatto» («Sui passi di Dio» di Patrizia Girolami, pt. 1/3)

suipassi«La vita monastica… è profezia del Definitivo, dell’Assoluto, dell’Eterno senza il quale il tempo e lo spazio sarebbero solo una tragica e beffarda assurdità.» Nell’introduzione di mons. Dante Carolla al volume di Patrizia Girolami, Sui passi di Dio1, viene suggerito come il testo della monaca trappista di Valserena, che raccoglie una serie di interventi tenuti durante un corso di formazione per monache benedettine, non si rivolga esclusivamente alle sue destinatarie naturali, bensì a tutti, anche a coloro che, come chi scrive, sono più vicini al partito della «tragica e beffarda assurdità». Monaci e monache, ribadisce mons. Carolla, «sono un modello irrinunciabile di umanità perché non si accontentano del provvisorio, del precario, del parziale».

Confesso una certa perplessità di fronte a certe rivendicazioni, talvolta cariche di sottintesi. E aggiungerei che non si tratta di «accontentarsi» del provvisorio, cioè di quella fragilità e mortalità che non hanno bisogno di essere dimostrate, quanto di immergersi in quel provvisorio, riconoscendovi, si potrebbe dire, la propria vera e unica casa, al pari di quelli che la riconoscono in un chiostro.

A me sembra che gli interventi di s. Patrizia Girolami siano molto cauti nel generalizzare, e il loro «rivolgersi a tutti» sia alquanto indiretto (salvo in alcuni passaggi che vedremo più avanti); è con la medesima cautela, quindi, che li ho avvicinati dall’esterno, in particolare il primo, che si intitola La via della vita: testimoni-profeti secondo la Regola. I due temi, testimonianza e profezia – che già di per sé sono scivolosi per un laico – convergono, nel discorso dell’autrice, sul concetto (e sulla realtà) dell’esperienza; nel caso specifico «una esperienza profonda di Dio […] che in un certo senso si impone da sola in loro [nei monaci] per la sua forza e la sua evidenza». Tali forza ed evidenza, mi pare, sono più affermate che mostrate, tuttavia, e d’altra parte come pretendere altrimenti: l’evidenza qui rivendicata si ritrova più nell’effetto – la volontà di conformarsi al Cristo, sia pure esito di una «chiamata»  – che in una sua qualità, se non misurabile (come una febbre), almeno «auto-evidente».

Intorno a questa esperienza, che inevitabilmente desta in me la massima curiosità intellettuale e umana, si raccolgono frasi talvolta molto suggestive, ma anche di difficile presa: «Facendo esperienza di lui… il monaco e la monaca sono la trasparenza del volto stesso di Dio nel mondo»2, o ancora «attraverso le vicende stesse del vivere noi possiamo fare l’esperienza di Dio, riconoscere e avvertire quella sorta di presenza immediata e diretta, per così dire quasi di contatto, del divino»; l’esperienza «è il luogo del permanere e del mutare, della durata e del divenire», è «una porta che immette in un oltre», che consente di «passare là dove non si era mai passati».

Proprio quando il disagio – il mio disagio – per queste e altre simili formule sembra prevalere ecco che l’autrice chiama in causa Benedetto da Norcia e la sua Regola, e lo fa in maniera eclatante, riprendendo le tesi di Pierfrancesco Stagi3, con un’affermazione non esattamente marginale: «San Benedetto ha fissato i fondamenti dell’esperienza religiosa dell’Occidente, ovvero ha fondato, non tanto a livello teorico quanto pratico, le modalità con cui l’Occidente si è rivolto a Dio». Quell’inciso (teorico / pratico), che è da sempre al centro della riflessione sul testo di Benedetto, mi ha subito rimesso in carreggiata.

(1-segue)

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  1. Patrizia Girolami, Sui passi di Dio. Testimonianza e profezia della vita monastica, introduzione di mons. D. Carolla, Quaderni di Valserena, Nerbini 2016.
  2. Qui, se non fossi chi sono, si potrebbe sviluppare l’immagine dei volti come finestre, che sembrano a volte aperte su altre dimensioni.
  3. Pierfrancesco Stagi, Benedetto da Norcia. L’esperienza di Dio, Borla 2014, un volume che mi sono subito accaparrato.

 

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