Forse oggi la lettura del saggio La missione di san Benedetto di John Henry Newman, apparso per la prima volta nel 1858, è più significativa per la comprensione della figura del cardinale, che per quella del «patriarca dell’Occidente». Quand’anche fosse così, è comunque una lettura molto piacevole e fertile, a cominciare dalla tesi da cui prende le mosse Newman. Se guardiamo alla storia del cristianesimo, e della cultura, e la dividiamo idealmente nei tre periodi antico, medioevale e moderno, «ci sono rispettivamente tre ordini religiosi che si susseguono sulla pubblica scena l’uno all’altro, e rappresentano l’insegnamento impartito dalla Chiesa cattolica nel periodo della loro egemonia»: quello di san Benedetto, quello di san Domenico e quello di sant’Ignazio. «Forse questo me lo si concederà senza troppe esitazioni», prosegue Newman, assegnando come «suo tratto distintivo» a Domenico lo spirito scientifico, a Ignazio lo spirito pratico e a Benedetto la poesia.
La poesia. Il monachesimo poetico di Benedetto fugge il mondo inautentico dei contrasti, delle vanità e delle ansie e insegue l’isolamento, la quiete e la pace, condizione necessaria per la contemplazione e la «visione dell’eternità»; torna «a quella primitiva età del mondo che i poeti hanno spesso cantato, la vita semplice dell’Arcadia o il regno di Saturno» e sceglie «la natura anziché l’arte, la vasta terra e i cieli maestosi anziché la città affollata» e soprattutto il Creatore anziché la creatura. La «poesia» di Benedetto si oppone alla «scienza»: non vuole comprendere, vuole ammirare; non vuole misurare, ma si compiace del vago; prende la mulattiera e non la ferrovia.
Allo stesso Newman viene il sospetto di aver esagerato – «ho detto più del necessario per chiarire cosa intendo» – e con una mossa improvvisa ci conduce oltre una curva verso un paesaggio sconfinato, quello della «famiglia di san Benedetto», che non è il frutto di una sola mente, di un unico momento, di un’unica intuizione, «è bensì un’organizzazione, variegata, complessa, irregolare e variamente ramificata, ricca più che simmetrica… come una grande vegetazione spontanea; porta sul volto i tratti che mostrano che è un’opera divina, non la semplice creazione del genio umano». Mi sembra un bel modo di restituire la varietà del grande fiume benedettino, che ha sicuramente conosciuto periodi di secca ostinata, ma cui anche il più severo osservatore non può togliere il tempo, la durata, l’aver accolto e l’essere scorso «attraverso le singolari avventure di persone di cui non abbiamo quasi nessuna testimonianza».
Lo sguardo di Newman a questo punto si è sollevato e osserva dall’alto i «monasteri isolati e sparsi per ogni dove [che] occupano la terra, ognuno nel suo posto, con una maestà parallela, ma superiore, a quella delle antiche residenze aristocratiche»: Bobbio, San Gallo, Fulda, Montecassino («la metropoli del nome benedettino»), «case antiche come queste conquistano lo spirito per la grandezza e insieme la dolcezza della loro presenza». È difficile sottrarsi all’afflato di questa pagina, è difficile non lasciarsi trasportare dalle immagini del cardinale («ogni porta e ogni chiostro ha avuto la propria storia, e il tempo ha inciso sui loro muri la cronaca delle proprie rivoluzioni»), è impossibile non comprendere il moto di «riverenza e affetto» ch’egli confessa.
Un poeta qui c’è senz’altro, ma non è Benedetto, è il cardinale.
(1-continua)
John Henry Newman, La missione di san Benedetto («Atlantis», gennaio 1858), in Benedetto, Crisostomo, Teodoreto: profili storici, traduzione di S.M. Malaspina, Jaca Book 2009, pp. 141-193.