La nuova collana di libri «Vetera sed nova», che le Edizioni San Paolo hanno lanciato l’anno scorso, sembra fatta apposta per uno come me, e infatti ho preso tutti i volumi apparsi finora (tranne uno). «Le piccole ma non meno preziose “gemme” della letteratura cristiana antica e medievale, dal messaggio umano e cristiano sempre attuale», come recita la presentazione della casa editrice, sono infatti assai ghiotte, come nel caso dell’ultima in ordine di tempo, il De zelo et livore di Cipriano di Cartagine, pubblicato col titolo di Quando l’uomo diventa istrice. La gelosia e l’invidia.
Il breve testo, forse un sermone, scritto non prima del 251, è sicuramente importante per la conoscenza della figura del vescovo africano (che soffrì il martirio per decapitazione durante la persecuzione dell’imperatore Valeriano nel 258), ed è importante per la storia del cristianesimo delle origini, quale testimonianza della strada tutt’altro che diretta e rettilinea che ha portato alla definizione dei sette vizi capitali. Ma non sono questi i motivi per i quali, come si suol dire, me lo sono goduto.
Come accade non di rado con questi testi, che non devo tecnicamente studiare, ma posso semplicemente leggere, li considero una passeggiata senza obblighi – se non quello di non inquinare – e mi godo il paesaggio, sempre ricco di sorprese, curiosità e insegnamenti, e particolari anche minori come la più classica delle metafore sportive: non si tratta ancora di calcio ma «corriamo ogni giorno in questo stadio [dove si esercitano] le virtù [in hoc virtutum stadio cotidie currimus]».
Mi dispiace un po’ che Cipriano consideri la musica, certa musica, instrumentum diaboli, il quale «tenta le orecchie attraverso le melodie della musica per dissolvere e rendere fiacco il cristiano vigore mediante l’ascolto di un suono più dolce», mentre trovo perfetta, assolutamente perfetta e non bisognosa di alcuna prova la seguente formulazione: «[È] una calamità senza rimedio odiare chi è felice».
Mi piace la descrizione (di cui il curatore ci mostra la derivazione da Seneca) dell’invidioso, che esibisce «il volto minaccioso, lo sguardo torvo, il pallore del volto, il tremore delle labbra, lo stridore dei denti, parole rabbiose, insulti sfrenati…»; mi piacciono queste cinque parole che descrivono il modo in cui l’Avversario si insinua nei nostri pensieri, «leniore aura et flatu molliore», cioè «con un sussurro più lieve e più dolce»; mi piace l’idea che i pensieri «marciscano»; mi piace molto questa immagine di Dio padre che «di persona [ipso] osserva e giudica il corso dei nostri comportamenti e della nostra vita [… E] che allora appunto ci potrà capitare di vederlo… se gli piacciamo dapprima in questo mondo per essergli graditi per sempre nel suo Regno».
Nell’ultima frase citata «il corso dei nostri comportamenti e della nostra vita» traduce l’espressione latina conversationis ac vitae nostrae curricula, che trovo molto bella e molto interessante linguisticamente. D’altra parte poco prima Cipriano, citando l’insegnamento dell’apostolo Paolo, aveva ricordato che ci è possibile camminare nella luce perché «illuminati dalla luce di Cristo, siamo sfuggiti alle tenebre di uno stile di vita immerso nella notte», che in latino suona così: «Qui inluminati Christi lumine tenebras nocturnae conversationis evasimus». Quanta strada ha fatto quella espressione: cosa c’è infatti di più intimo, dolce, e scevro di malignità, alle nostre orecchie di una conversazione notturna?
Cipriano di Cartagine, Quando l’uomo diventa istrice. La gelosia e l’invidia, edizione bilingue a cura di L. Coco, Edizioni San Paolo 2014 («Vetera sed nova»; 5).