«Tutte queste cose ne arrecavano grandissimo travaglio» (suor Fulvia e Donna Enrichetta Caracciolo, pt. 2)

(la prima parte è qui)

«In questa religiosa stanza, dunque, io venni, o per dire meglio, fui condotta l’anno 1541», scrive suor Fulvia Caracciolo, dopo aver rievocato le circostanze, in parte leggendarie, della fondazione del monastero di San Gregorio Armeno, a Napoli. Aveva due anni, quindi non ricorda i particolari. Di quando prende il velo, a otto anni, ricorda invece che «eravamo circa cinquanta moniche e ciascheduna di noi haveva le sue camere, ristretti, cucine, cantine et altre comodità. Tenevamo molte serve per nostro serviggio». I privilegi, oltre alla proprietà privata, sono molti, le monache possono uscire, passare periodi di vacanza in famiglia, e il monastero è un centro di attività economiche, artistiche, sociali.

Il vento cambia, piuttosto rapidamente, con la fine del Concilio di Trento (1565), e, come dicevo, di fronte alle novità lo sconcerto è massimo. Sconcerto e «atrocissimo dolore», ad esempio, per i numerosi smantellamenti e accorpamenti di comunità, come nel caso di San Festo e San Marcellino: pressioni, imposizioni, violenze, persino  la prigione, «per spazio di mesi due e giorni venti», finché le monache del primo monastero («al giudizio mio donne di molto valore, tanto che alcuna di esse haverebbe bastato a governare non dico un monastero, ma ancor un regno») cedono e confluiscono nel secondo, con «infinite lagrime dell’una e l’altra parte». Sconcerto e incertezza per il futuro («stavamo a punto come coloro che si trovano nelle strette carceri, aspettando d’hora in hora che sia fatta loro causa per terminare la vita»), visto che le nuove disposizioni vengono introdotte una alla volta: un anno viene negato l’accesso al monastero alle «donne secolari», l’anno successivo viene tolta la «custodia del Santissimo Sacramento» (cosa che riduce l’abbazia «come una casa vedovale»), poi bisogna cedere tutti propri beni al monastero («era già stato dato il tempo di tre giorni a sgombrare quel che volevano, altrimenti, fornito quello brevissimo spazio di tempo, sarebbe stato il monistero herede del tutto»). E ancora bisogna fare formalmente la nuova «professione», che è il punto più delicato: o dentro secondo le nuove regole o fuori. Diciassette monache decidono di andarsene, una separazione pubblica e dolorosissima che «non potrei aguagliarla ad altro che al giorno del giudizio».

Nel gennaio 1569 quella che si può definire resistenza è piegata e tutte le monache rimaste sono «professe». Passano gli anni e, sotto il controllo implacabile della sede vescovile, qualcuna rientra, si susseguono le badesse, vengono distribuiti gli incarichi, si dà corso alle sistemazioni edilizie pro-clausura. Metà del monastero si trasforma in un cantiere («Potrassi, dunque, comprendere facilmente da chi leggerà quante fossero le nostre scommodità quando essendomo noi così ristrette in tanto angusto loco ne erano con tanta furia et fretta deroccate le case di modo che la moltitudine della polve e fumo ne sforzava a stare con le fenestre chiuse»), che scoperchia anche le antiche sepolture e si rivela assai costoso («Nell’anno 1574… la spesa della fabrica correva mirabilmente…»).

La cronaca si conclude con il 1579, «a lode perpetua di Sua Divina e Santissima Maestà», e c’è spazio per un’ultima, discreta protesta, a futura memoria: «Il frutto del che [quanto è accaduto] sarà principale di darne giontamente lodi alla sua Divina Maestà, che è rimasta servita ai tempi nostri farne fare quella santa professione esplicita, che l’antiche nostre madri e sorelle non conobbero, et questo per accrescerne maggiormente di spirito e spropriarne affatto dal mondo».

(2-continua)

Le monache ribelli raccontate da suor Fulvia Caracciolo, a cura di C. Carrino, Intra Moenia 2013.

 

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