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Fare pancia (Dice il monaco, CXXXIV)

Dice Gregorio Magno, prima monaco, poi papa, intorno al 586:

Sbaglia a ritenersi retto chi ignora la regola della rettitudine massima. Spesso viene considerato dritto un legno se non lo si accosta a un regolo. Ma quando esso viene fatto combaciare col regolo, allora si scopre quanto quel legno sia storto e faccia pancia [sed cum regulae iungitur, per quantam tortitudinem tumescit invenitur], poiché la rettitudine disgiunge e condanna ciò che l’occhio ingannandosi approvava.

♦ Gregorio Magno, Moralia in Iob, V, 67, citato in Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), volume I (Libri I-II), introduzione e commento a cura di S. Pricoco, testo critico e traduzione a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori 2005, p. 313.

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Lattughe e relativi condimenti (il primo libro dei «Dialoghi» di Gregorio Magno)

 Già che ho messo il piede nel mirabile Prologo del primo libro, mi son detto, perché non leggerli, una buona volta, i Dialoghi di Gregorio Magno? Una di quelle opere così sovraccariche di commenti, studi critici, apparati filologici e così disseminate in citazioni di ogni tipo che rischio spesso di dare per scontate, se non acquisite: ah, certo, i Dialoghi, la Vita di san Benedetto1

Senza la minima pretesa di cogliere dettagli passati inosservati – di questo genere di opere tutto è stato già colto da generazioni di lettori attrezzatissimi2 –, è molto bello leggere in libertà e soffermarsi sui particolari che attirano la propria attenzione, come se si fosse lì con il diacono Pietro ad ascoltare i racconti di un papa (590-604) un po’ stanco e senza tiara.

Alcune annotazioni sembrano perfette per confermare persistenti modi dire, come «certe cose non cambiano mai»: «Si diceva allora in giro [rumor exierat] che nel monastero di quel servo di Dio ci fosse molto denaro»; o «l’abito non fa il monaco»: l’abate Equizio «indossava vesti molto modeste ed era di aspetto così dimesso che, se avesse salutato uno che non lo conosceva, costui avrebbe disdegnato di rispondere al saluto».

Ci si imbatte spesso in opinioni espresse chiaramente in prima persona: «Io considero [ego enim… credo] la virtù della pazienza più importante di segni e miracoli»; «Io invece ritengo, Pietro…» [Ego, Petre… existimo]; «Io ho sempre gradito parlare con persone anziane» [Mihi senum conlocutio esse semper amabilis solet]; allo stesso modo è evidente come talvolta Gregorio non stia parlando di altri che di sé: «Il fatto è che il cumulo delle incombenze rovina l’anima di ogni vescovo; e quando essa si divide in più occupazioni, si svilisce in ciascuna di queste».

C’è un vasto insieme di spunti che testimoniano «la modestia sociale del clero e le difficoltà economiche della chiesa» (una «chiesa minore, non opulenta né autoritaria», la cui povertà peraltro aiuta a custodirne l’umiltà) e l’attenzione verso gli aspetti più basilari, come l’alimentazione: seminare, raccogliere, galline, finito l’olio, anche il vino, per non parlare del grano, un po’ di erbe aromatiche, ecc. Al capitolo 3 troviamo il monaco ortolano che scaccia il ladro che gli devasta l’orto con l’aiuto di un serpente; poi scopriamo che l’occasione di tentazione per una monaca, che scatena l’azione del diavolo, è un’innocente insalata: «Adocchiata una lattuga [lactucam], le venne il desiderio di mangiarla»; quando un emissario del papa va a cercare Equizio, lo trova impegnato a falciare il fieno e si sente rispondere: «Finisco il lavoro e ti seguo»; il presbitero Severo rimanda un intervento perché «in quel momento era casualmente occupato a potare la sua vigna»; i confratelli di Martirio che «cuocevano il pane sotto la cenere e si dimenticarono  di imprimere con un pezzo di legno il segno di croce sul pane crudo in modo che sembrasse diviso in quattro parti» (come si usa da quelle parti, aggiunge Gregorio); ancora cogliamo il priore Nonnoso mentre osserva le balze scoscese (del Soratte) su cui sorge il suo monastero, e «si mise a pensare che quel piccolo spazio avrebbe potuto essere adatto almeno a farvi crescere gli aromi con cui condire la verdura» – il miracolo sta, è ovvio, nel potere della preghiera (che libera il «piccolo spazio» dai sassi): «È veramente meraviglioso che Dio si degni di esaudire le preghiere di chi spera in lui, anche in cose di poco conto», nondimeno le verdure saranno diventate più saporite…

La dimensione di questi racconti e dei relativi miracoli è prevalentemente rustica, paesana, centro Italia, si deve sgobbare, ci si ammala la mattina e si muore la sera, sera in cui non si può che stare intorno al fuoco, i Goti imperversano (e bevono «da Goti»), i cavalli costano… ma anche dal più piccolo segno si può trarre una lezione morale, tutt’altro che piccola, e nelle più piccole circostanze si può trovare la prova di una grande santità. Ci pensi? chiede a un certo punto Gregorio a Pietro. Eccome, risponde Pietro, «e resto stupefatto».

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  1. Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), volume I (Libri I-II), introduzione e commento a cura di S. Pricoco, testo critico e traduzione a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori 2005.
  2. Erich Auerbach, tanto per dire, ha scelto tre racconti di Gregorio e li ha analizzati «come esempio di “realismo” medievale e di stile popolare».

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Era già un po’ che me ne stavo lì (Gregorio Magno)

 Gregorio I è papa da circa tre anni (è salito al soglio nel 590) e non passa giorno in cui non pensi con nostalgia ai suoi anni in monastero, a Sant’Andrea al Celio. Ne parla spesso nelle lettere e non perde occasione di ribadirlo quando mette mano al mirabile proemio del primo libro dei Dialoghi, un testo che «è stato celebrato da critici illustri (Auerbach in testa) come scritto di straordinaria modernità e collocato tra i modelli, nel solco del grande Agostino, della letteratura di confessione» (Salvatore Pricoco1). L’ho riletto, nella traduzione delle Benedettine di Viboldone2.

1. Un giorno,

Sembrerebbe un attacco comune, tipico di Gregorio peraltro, ma a me la formula dà un senso preciso come di apertura di un sipario, come invito a vedere, a immaginare, oltre che ad ascoltare. E infatti ci sarà molto da immaginare nei primi paragrafi e non pochi saranno i termini riferibili al vedere e allo sguardo.

oppresso dall’insopportabile invadenza [agitazione, per Simonetti] di alcuni uomini di mondo [seculares], ai cui affari troppo spesso siamo costretti a pagare un tributo, anche quello che sicuramente non starebbe a noi accollarci,

Una precisazione che non ci si aspetterebbe da un papa che lungo tutta la sua «carriera» ha sempre sentito il valore della responsabilità del pastore.

andai a cercarmi un luogo appartato [quindi dove non esser visto], consono alla tristezza, perché capissi lucidamente tutto ciò che, nelle mie occupazioni, mi metteva a disagio, e potessi considerare liberamente tutti i quotidiani motivi di afflizione.

Bello e quasi romantico il «luogo appartato consono alla tristezza», il locum amicum moerori, dove il moeror accoglie un vasto insieme di significati da tristezza a malinconia, da pena ad afflizione a dispiacere.

2. Era già un po’ che me ne stavo lì, triste e silenzioso,

Nel testo latino Gregorio precisa che se ne stava seduto, e come non vederlo, lì, fermo, lo sguardo perso nel vuoto a ripassare i motivi concreti della propria depressione, magari concedendosi una punta di autocommiserazione, solo una punta, prima che arrivi l’amico. I due, è evidente, si sono sorrisi vicendevolmente.

quando mi si presentò il dilettissimo figlio e diacono Pietro, legato a me in intima amicizia fin dal primissimo fiore della giovinezza e compagno [socius] delle mie ricerche [meglio, compagno di ricerche] sulla Parola Sacra. Vedendomi sopraffatto da quella forte depressione, mi disse: «È successo qualcosa di nuovo, che la pena ti invade più del solito?»

Che succede, Gregorio? Qualche nuova tegola? Anche qui l’evidenza della domanda e della situazione, familiarissima, è tale che sembra quasi di sentirla, quella domanda.

3. Io risposi: «Pietro,

Ma no, niente, le solite cose… Il fatto è che

la tristezza ci cui io soffro ogni giorno, mi è sempre vecchia, perché ormai consueta, e sempre nuova perché ogni giorno si accresce. In effetti, il mio animo infelice, oppresso dalla ferita del quotidiano affaccendarsi [pulsatus vulnere occupationis], si ricorda di com’era un tempo in monastero quando tutte le cose caduche erano da lui poste su un piano inferiore; di come dominava tutte le realtà passeggere, e aveva abitualmente il pensiero alle realtà celesti; si ricorda che, pur trattenuto nella condizione terrena, superava attraverso la contemplazione le frontiere della carne e amava la stessa morte, che pressoché da tutti è ritenuta una condanna, quale ingresso nella vita e premio alla fatica.

La risposta, come anche il paragrafo seguente, non è improvvisata, si capisce che le parole sono state messe a punto in lunghe meditazioni ripetute. Da notare come le «frontiere della carne», che Simonetti rende con «angustie della carne», in latino è carnis claustra, ed è pensabile che un ex monaco qual era Gregorio non usi quel termine a caso, ancorché al plurale – il corpo quale secondo chiostro.

4. Ma ora a motivo della responsabilità pastorale si affanna [l’animo] per le questioni degli uomini di questo mondo, e dopo la bellezza stupenda di quella pace è imbrattato dalla polvere dell’azione terrena. Una volta che ci si è dispersi nell’esteriorità per venire incontro alla moltitudine, anche quando si ricerca l’interiorità ci si ritrova indubbiamente molto svuotati.

Certo, le strade della Terra sono polverose e se ci si muove lungo di esse, ecc. «Incontro alla moltitudine», cioè «incontro alle esigenze di molti» (Simonetti), da cui emerge proprio la folla di chi si rivolge al papa e chiede, chiede, chiede.

Perciò da una parte valuto ciò quello che devo sopportare, dall’altra quel che ho perduto, e quando intuisco la profondità della perdita mi si fa più greve il fardello da portare.

Se ci ricordiamo che siamo alla fine del VI secolo «quello che devo sopportare» suona incredibilmente «moderno». È il momento della metafora della nave che, quantunque classica, non è ancora, alla fine del VI secolo appunto, del tutto consumata e inutilizzabile, anzi:

5. Ecco, ora sono sbattuto dai flutti del grande oceano, e nella navicella del mio spirito sono squassato dall’infuriare di una violenta tempesta. E guardando alla vita di prima, quasi voltandomi a guardare indietro, sospiro al vedere il lido lontano. E ancora più pesante è il mio disagio quando, sballottato su giganteschi cavalloni, riesco a malapena a scorgere il porto che ho lasciato.

Guardando, guardare, vedere, scorgere…

Questa infatti sono le cadute dello spirito [o della mente, mentis, ancora più adatto a noi contemporanei]: prima si perde il bene che si possiede, ma ci si ricorda ancora di averlo perduto; poi però, allontanandoci ulteriormente da esso, ci si dimentica anche del bene che si è perduto, e succede che non si vede più neppure con lo sguardo della memoria ciò che una volta si possedeva in atto.

Non è anche, forse, l’esatta fotografia della vecchiaia, come l’abbiamo vista e come la temiamo? Ricordarsi dapprima del buono che, pure, è stato e poi, a poco a poco, a mano a mano che si procede in gurgite vasto, non ricordarsene nemmeno più?

Così si produce ciò di cui dicevo, che cioè quando si è navigato a lungo, non si vede più neppure il porto di pace che si è abbandonato.

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  1. Salvatore Pricoco, Introduzione a Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), introduzione e commento a cura di S. Pricoco, testo critico e traduzione a cura di M. Simonetti, 2 voll., Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori 2005.
  2. San Gregorio Magno, L’uomo di Dio Benedetto. La vita narrata nel II Libro dei Dialoghi, testo latino, versione e note a cura delle Benedettine di Viboldone, Abbazia di Viboldone 19883.

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Ostaggi (Gregorio e Bernardo, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

L’inaggirabilità del corpo, si diceva; campo decisivo dove si gioca la nostra «partita». Per san Gregorio Magno la strada da seguire è quella di un radicale ritorno in se stessi (habitare secum), chiudendo le porte che in noi si aprono al mondo, e ai suoi «pericoli», e spegnendo i sensi che vi sono connessi. In tale prospettiva il chiostro è simbolo perfetto di questo movimento e al tempo stesso strumento pratico di grande efficacia, quasi una piattaforma di lancio per ascendere alla contemplazione delle cose celesti. Parlando di san Benedetto, Gregorio sintetizza dicendo che in quella solitudine raggiunta «abitava con se stesso nel senso che si manteneva nel chiostro del suo pensiero; ma ogni volta che l’ardore della contemplazione lo portava alle altezze, senza dubbio si lasciava sotto se stesso» (il corsivo è mio). «In questo contesto», commenta Patricia Metzger1, il chiostro è presentato come un baluardo contro il mondo, così come la Chiesa e la fede sono presentate come paradisi di pace nel cuore di un mondo tormentato» (e non è difficile scorgere qui uno dei motivi di attrazione che gli stessi edifici monastici suscitano nei laici che li visitano).

Anche san Bernardo invita a partire dalla miseria della nostra condizione per orientarsi a Dio, ma non facendo leva sulla colpa, come Gregorio, bensì sulla progressiva conoscenza di sé, non sulla chiusura bensì sull’apertura. Mettendo anche in guardia sui rischi legati all’idealizzazione della contemplazione. L’interiorità, per Bernardo, non è un rifugio dolce e riposante, non deve esserlo se si vuole evitare il compiacimento – cioè l’inautenticità. Scrive Bernardo, con micidiale finezza, al canonico Ogero (Lettera 87): «Di’ la verità, cioè che tu hai avuto cura più della tua quiete che dell’utilità degli altri. E non c’è da meravigliarsene: anche a me, lo confesso, piace che una siffatta quiete ti piaccia, purché non ti piaccia troppo». E aggiunge, inchiodando alla sua responsabilità il povero Ogero, che, con sollievo, aveva «deposto il carico della cura pastorale»: «Qualsiasi bene che piace tanto che se non lo si può realizzare, secondo le norme, ci spinge però a realizzarlo lo stesso anche in un modo non lecito, è un che di troppo e per il fatto stesso che non è compiuto secondo le regole non è un bene». Il pericolo per Bernardo, secondo la lettura di Metzger, non è (quasi) mai nel mondo, ma (quasi) sempre e comunque in noi stessi, «nelle illusioni e nelle false immagini che alimentiamo su noi stessi».

L’ingresso nel chiostro, reale e simbolico («luogo alto e segreto, ma per nulla tranquillo»), quindi, non è una fuga dal mondo, corrisponde invece alla creazione di uno spazio, reale e simbolico, di accoglienza interiore per incontrare il divino, nella sua indefettibile misericordia. La quiete monastica libera dunque dall’affanno della ricerca di sé, e dalle trappole dell’autoaffermazione, in virtù di una completa apertura e disponibilità all’incontro. Non si abbandona se stessi, nel chiostro, semmai ci si sveste. E questo è un punto di comprensione cruciale anche per un non credente come il sottoscritto, cruciale per quanto assai sfuggente se privato, appunto, dell’altro Protagonista di tale incontro.

«Lungi dall’essere un ripiegamento su stessi», conclude Metzger, «la quiete si rivela qui come il culmine dell’incontro, permettendo all’uomo non di sfuggire al mondo, ma di trovare la distanza necessaria per non esserne ostaggio.»

Ma chi, o cosa, c’è laggiù, se Lui non si vede?

(2-fine)

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  1. Da san Gregorio a san Bernardo. Due percorsi spirituali per condurre l’uomo carnale a Dio, in «Vita nostra» XII (2022), 1, pp. 21-50 (trad. di De saint Grégoire à saint Bernard: deux chemins spirituels pour conduire l’homme charnel vers Dieu, in «Collectanea Cisterciensia», 2019, 81).

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Un esperimento nel tempo (Gregorio e Bernardo, pt. 1/2)

Sul primo numero di quest’anno la rivista di «area cisterciense» «Vita nostra» ha dato in traduzione italiana un altro saggio molto interessante di Patricia Metzger, studiosa francese di liturgia e specialista di san Bernardo, dedicato al confronto del pensiero di san Gregorio e, appunto, san Bernardo sul corpo1. Argomento che li accomuna: «Entrambi descrivono i limiti e gli impedimenti della condizione umana e, più precisamente, la pesantezza che si lega al corpo». Si tratta, va da sé, di un testo per studiosi, che offre tuttavia numerose aperture in cui il lettore generico e laico può introdursi con profitto, se non si ritiene del tutto sbagliato considerare i due autori alla stregua, se così si può dire, di «pensatori esistenzialisti» ante litteram.

Entrambi condividono una situazione storica simile, avvertono in maniera simile la pressione del «mondo» e non vi si sottraggono, fondano il proprio pensiero sull’esperienza vissuta e sull’osservazione della realtà quotidiana e muovono da una simile visione della «miseria umana», «entrambi sanno che è attraverso il corpo che possiamo comunicare tra di noi, come con Dio»: il corpo come luogo inaggirabile dove cresce rigogliosa la nostra ambivalenza e… si gioca un po’ tutto.

Per illustrare la posizione del grande papa, la studiosa cita un brano mirabile dal suo Commento morale a Giobbe in cui Gregorio mostra come la nostra condizione di eterna mutevolezza ci spinge, per arginare il «malessere», a usare rimedi che si trasformano nel loro opposto (indeboliti dall’inattività, vogliamo fare, ma fare ci stanca e vogliamo riposare…), e così «il bisogno di curarsi non fa mai difetto. Tutti questi sollievi che cerchiamo di utilizzare nell’esistenza sono come tanti antidoti che usiamo contro il nostro malessere. Ma queste medicine si mutano in veleno, poiché, se rimaniamo un po’ a lungo attaccati al rimedio scelto, siamo disturbati da ciò che avevamo previsto dovesse ristorarci». Di conseguenza ci smarriamo in una continua e penosa trasformazione («Alla ricerca di ciò che non possiede, quando lo riceve, [l’anima] sperimenta l’ansia») e ci troviamo in una situazione analoga anche di fronte al sapere, alla conoscenza: «Vedendosi al tempo stesso vasta e limitata, [l’anima] non sa più cosa pensare di se stessa: se non fosse grande, non si sarebbe mai posta tali questioni e, se non fosse piccola, risolverebbe almeno i problemi che si pone».

Il corpo («sintesi di quello che vive l’uomo, gettato nel cuore del mondo», dice Metzger, usando un termine molto significativo) è dunque per Gregorio il peso che ci trascina in basso e che ci inchioda, negativamente, alla realtà terrena, distogliendoci dal cielo. Da esso dobbiamo prendere le distanze; dal corpo e dal mondo dobbiamo per quanto possibile allontanarci per ritrovare, in un luogo riparato e in noi stessi, la via che ci riconduca a Dio. Non così per Bernardo, che alla considerazione della corporeità non ne fa seguire il disprezzo: la creatura non va disprezzata, poiché se ne disprezzerebbe implicitamente il Creatore.

Alla debolezza del corpo, alla nostra debolezza, Bernardo risponde guardando a Cristo e alla sua incarnazione: Cristo è entrato nel mondo, e in un corpo, ed è quindi nel mondo e nel corpo che può essere rintracciato. C’è qui un punto di grande interesse ai miei occhi. Nel trattato sui Gradi dell’umiltà e della superbia Bernardo ci invita a scoprire nella nostra miseria la chiave per comprendere e compatire quella altrui, seguendo l’esempio di Gesù «che ha voluto soffrire per sapere come compatire, diventare miserabile per imparare come avere misericordia». Ed ecco il passaggio cruciale: «Non che non lo sapesse prima, lui la cui misericordia è da tutta l’eternità: ma ciò che sapeva per natura da tutta l’eternità, lo ha imparato nel tempo per esperienza» («Quod natura sciebat ab eterno, temporali didicit experimento»). Nel tempo per esperienza! L’avere un corpo è dunque un’esperienza che mancava, da fare per una delle tre Persone (e quindi per tutte, no?). Un corpo mortale, va aggiunto, poiché cos’è il tempo se non la morte? «Conosceva per natura, ma non per esperienza», ripete Bernardo, che pare rendersi conto di aver sfiorato l’idea di una possibile non completa onniscienza di Dio, e si affretta ad aggiungere che, in sostanza, l’ha fatto per noi.

(1-segue)

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  1. Da san Gregorio a san Bernardo. Due percorsi spirituali per condurre l’uomo carnale a Dio, in «Vita nostra» XII (2022), 1, pp. 21-50 (trad. di De saint Grégoire à saint Bernard: deux chemins spirituels pour conduire l’homme charnel vers Dieu, in «Collectanea Cisterciensia», 2019, 81).

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Ogni consolazione che noi addomandiamo per utilità di nostra vita (Voci, 29; san Gregorio Magno)

Gregorio MoraliLa condanna al «non va mai bene niente» in una mirabile pagina di san Gregorio Magno, dal libro VIII dei suoi Moralia in Job (in un volgarizzamento trecentesco, ancorché un po’ «succinto»):

Questo [le conseguenze della superbia dell’uomo] vedremo noi più chiaramente se in questa natura atterrata noi consideriamo in prima la gravezza della carne, e appresso quella del corpo. E per questo mostrare non voglio che diciamo de’ diversi dolori che noi sostegnamo, né delle percussioni delle febbri dalle quali siamo continuamente affannati, né delle molte e varie infirmità corporali. Ma senza questo possiamo dire che ogni sanità del nostro corpo sia piuttosto infirmità. Or vedi questo chiaramente: se noi stiamo in ozio, o in pigrizia, il corpo si guasta; se stiamo in esercizio, vien meno per fatica; spesse volte il corpo ha fame, e allor conviene che col cibo sia sostentato; quando è troppo ripieno di cibo, o che è affannato per troppo mangiare, convien che sia alleggerito con astinenza. Spesse fiate si bagna, acciocchè non si guastasse per troppo umidore. Vedemo ancora che tale nostra natura convien che alcuna volta sia affaticata, acciochè non si corrompesse per troppo riposo; altra fiata conviene che si riposi, acciocchè non venisse meno per troppa fatica; dopo la fatica del vegghiare convien che si ripari col sonno. Quando è gravata di troppo dormire, s’aiuta col vegghiare. È coperta di vestimenti, acciocchè non si guasti per lo freddo; quando ha ricevuto troppo caldo prende il refrigerio del vento. E in questo modo riceve in sé medesima difetto per quella cosa per la quale ella si pensava fuggire. Sicché possiamo dire che la natura nostra, essendo così male ferita, sente sempre nuove infirmità per la medicina sua. Per la qualcosa ben possiamo dire che senza le febbri e i continui dolori ogni nostra sanità sia piuttosto da esser chiamata infirmità, dipoichè mai in essa non manca il bisogno della medicina: onde ogni consolazione che noi addomandiamo per utilità di nostra vita si può chiamare medicina contra alcuna infirmità che noi sentiamo. Sicchè quanti sono i diletti, ovvero sollazzi corporali, tante si può dire che sieno le nostre infirmitadi, e ogni medicina la quale noi prendiamo per fuggire tali infirmità, ritorna in infirmità nuova; perocchè usando noi un poco superchio il rimedio che noi prendiamo, ci ritorna in infirmità quello che noi abbiamo preso per medicina.

E certo ben fu convenevole che in questo modo fusse corretta la nostra presunzione e così abbattuta la nostra superbia. Onde perché una volta avemo lo spirito superbo, ecco che continuo portiamo con noi il loto, cioè la corruzione di questo corpo.

Ora veggiamo se noi siamo gravati d’infirmitadi della parte dell’anima. Certo non sono minori le sue gravezze che quelle del corpo. L’anima nostra, dipoichè fu schiusa da quella sicura allegrezza de’ veri beni, certo continuamente sente nuove afflizioni. Che ora è ingannata per speranza, ora è angosciata per paura; ora vien meno di dolore, ora è rilevata per falsa allegrezza. Con tutta sua pertinacia ama queste cose transitorie, e quando le perde è abbattuta senza consolazione, perocchè essendo essa sottoposta a queste cose mutabili conviene che si muti secondo la mutazione di quelle: onde quando ella addomanda quel che ella non ha, se lo prende alcuna fiata con sua fatica; e quando l’ha ricevuto, le incresce d’averlo addomandato con tanta sollecitudine. Spesse volte ama quello che essa aveva avuto in dispregio, e spesse volte dispregia quello che essa amava. Alcuna volta la mente con molta sua fatica riceve alcun conoscimento delle cose eterne, e subitamente le passano della memoria, se ella comincia punto a voler rimanere di tale fatica con molto affanno, e per lungo tempo va investigando di poter sentire alcuna particella di quelle cose di sopra; ma di poi l’è molto più agevole a ricadere tosto a quello ch’ella aveva usato di fare, e così non sa perseverare eziandio per picciol tempo in quello che essa aveva trovato. Desidera l’anima d’essere dirozzata, cioè di diventare savia, e con molto suo affanno vince in sé medesima alcuna volta la cecità della ignoranza: e dipoichè è diventata bene ammaestrata le conviene combattere contra la vanagloria della scienza sua. Affaticasi ancora l’anima, e appena si può sottomettere la iniqua tirannia della carne sua; e nientedimeno dopo questo si sente in sé medesima l’immagine della sua colpa, la quale essa aveva già vinta di fuori di sé coll’opera.

Levasi la mente a contemplare l’altezza del suo creatore, ma appresso ella è confusa della oscurità delle cose corporali. Vuole ancora la mente considerare di sé medesima, come ella, la quale è senza corpo, regga il corpo suo, e non può. Va ricercando quello che potesse rispondere a sé medesima, e a questo non è sufficiente: e così vien meno in quello che ella con molta prudenza addomandava. E in questo modo possiamo dire ch’ella si vede esser grande e piccola, larga e stretta; perocchè se ella non fusse larga, già non andrebbe cercando cose tanto malagevoli ad investigare: e dall’altra parte s’ella non fusse stretta, già troverebbe quello ch’ella addomanda. Ben dice adunque: Tu m’hai posto contrario a te, e sono fatto grave a me medesimo. E certo così è vero, perocchè l’uomo così discacciato sente in sé medesimo le contrarietà della carne e le questioni della mente, e così egli medesimo è a sé stesso grave peso: perocchè da ogni parte è aggravato di fatiche, e da ogni parte angosciato d’infirmitadi. Così, quello il quale partendosi da Domenedio si credette esser bastevole alla sua quiete, non trova in sè medesimo alcuna cosa se non continui affanni di turbazioni.

♦ I Morali del Pontefice S. Gregorio Magno sopra il Libro di Giobbe; volgarizzati da Zanobi da Strada, Protonotario Apostolico, e Poeta laureato contemporaneo del Petrarca, in Roma, per gli eredi Corbelletti, 1714.

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Occhio alle lattughe

Leggendo il terzo frammento superstite, mutilissimo, del De Cruce di Bonvesin de la Riva1 ci si imbatte in una storiella semplice e nondimeno curiosa, che assegna a un alimento in genere non temuto un insospettabile potere di tentazione.

La storia, come informa la curatrice del testo, Silvia Isella, è tratta di peso dai Dialoghi di Gregorio Magno2 e narra di un provvidenziale esorcismo compiuto da Equizio, fondatore e abate di monasteri nell’Italia centrale del VI secolo. L’episodio, e il suo protagonista, ho appreso, è sempre stato oggetto dell’interesse degli studiosi e ha attirato anche l’attenzione di Erich Auerbach, «come esempio di “realismo” medievale e di stile popolare».

Stile popolare che si direbbe esaltato dal volgare di Bonvesin. Un certo giorno, infatti, in uno dei monasteri che Equizio «havea in soa cura», «andando una dre moneghe | per l’orto a la verdura, / Et eco ella have vezudho | entr’orto una lagiuva». Il desiderio di addentare la lattuga è forte, e non sarebbe così grave, se la monaca non dimenticasse di benedirla adeguatamente con il segno della croce («no fé lo segno dra crox»).

Al primo morso scatta il dramma: il diavolo se la prende all’istante, e la povera serva di Dio «se buta in terra | com femena inganadha, / E dal malegno spirito | crudelmente fi turbadha». Si manda a chiamare Equizio, che accorre e si mette subito a pregare per la sventurata. Al che il diavolo, subdolo, parlando con la voce della sua vittima, fa come per discolparsi…

La conclusione della storia la leggiamo solo in Gregorio Magno, poiché il testo di Bonvesin qui si ferma, e ne ricaviamo un avvertimento: attenzione anche ai più innocui cespi d’insalata, non si sa mai chi vi possa essere appostato. Sbraita infatti il diavolo a Equizio che lo scaccia: «Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto? Me ne stavo seduto sopra la lattuga, costei è venuta e mi ha morso»3.

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  1. Bonvesin de la Riva, De Cruce, testo frammentario inedito a cura di S. Isella Brusamolino, All’Insegna del Pesce d’Oro 1979.
  2. Gregorio Magno, Dialoghi I, 4, 7, in Storie di santi e di diavoli, introduzione e commento di S. Pricoco, testo critico e traduzione a cura di M. Simonetti, vol. I, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 2005, p. 34-37.
  3. «Ego quid feci? Ego quid feci? Sedebam mihi super lactucam. Venit illa et momordit me.»

 

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Dell’acqua, un prato, un bel posto

Tra le varie qualità soprannaturali che Gregorio Magno attribuisce a Benedetto da Norcia nella sua Vita e miracoli del venerabile abate Benedetto, contenuta nel secondo libro dei Dialoghi, c’è quella di capire al volo se una persona tenuta al digiuno lo abbia invece rotto; qualità che, volendo, si potrebbe anche attribuire a quella spiccata capacità di osservazione che il padre del monachesimo dimostra ampiamente nella sua Regola.

Gregorio la esemplifica raccontando due episodi molto spiritosi1. Nel primo un gruppetto di confratelli si trova fuori del monastero «per una commissione» (ad responsum) e, avendo fatto tardi, nonostante il divieto della Regola2 «andarono da una pia donna che essi sapevano abitare là vicino, ed entrati da lei cenarono». E che sarà mai, no? Il guaio, però, è che, rientrati piuttosto tardi al monastero, a Benedetto che chiede loro dove abbiano mangiato, decidono di mentire: noi? da nessuna parte! L’abate li sbugiarda all’istante e scende persino nei dettagli: «Non siete stati in casa di quella tale donna? Non avete preso cibo da lei? Non avete bevuto tanti bicchieri?» Mortificati e anche spaventati, i monaci si gettano ai piedi di Benedetto e confessano tutto. E vengono perdonati.

Il secondo episodio vede protagonista il fratello, «laico, ma di sentimenti religiosi», di Valentiniano, uno dei discepoli più vicini all’abate. Costui ogni anno va a trovare il fratello al monastero, digiunando durante il viaggio in segno di penitenza per i suoi peccati. In uno di questi brevi ma sentiti pellegrinaggi viene avvicinato da «un altro viandante» (alter viator) che gli dice: «Vieni, fratello, mangiamo: se no, veniamo meno per la stanchezza». Il fratello di Valentiniano rifiuta, ricordando all’occasionale compagno di viaggio il suo voto. Dopo un po’ quello ci riprova, e ancora il buon uomo rifiuta. Infine, «dopo che ebbero percorso molto altro cammino», si trovano in un bel prato, con tanto di sorgente, e il tentatore torna all’attacco. Questa volta il fratello di Valentiniano cede e «acconsentì a mangiare».

Alla sera ha appena messo piede nel monastero e subito Benedetto lo apostrofa: «Che hai fatto, fratello? Il malvagio nemico, che ti ha parlato per tramite del tuo compagno di viaggio [conviator], non è riuscito a persuaderti né la prima né la seconda volta, ma c’è riuscito alla terza e ti ha imposto la sua volontà?» Finale obbligato: gettarsi ai piedi, vergognarsi, pentirsi – perdono.

Dunque era stato il demonio che, infilatosi nei panni di un passante qualsiasi, aveva indotto al peccato il fratello di Valentiniano, ma va detto che il modo in cui l’ha fatto, le parole che ha usato sono quanto di più umano si possa immaginare. Quando infatti erano arrivati nel luogo della tentazione il viandate aveva detto: «Ecco dell’accqua, ecco un prato, ecco un bel posto. Qui ci possiamo ristorare e riposare un po’, per avere la forza di terminare il viaggio in buone condizioni». Del tutto ragionevole.

E soprattutto: «Ecce aqua, ecce pratum, ecce amoenus locus», dell’acqua, un prato, un bel posto.

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  1. Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), introduzione e commento di S. Pricoco, testo critico e traduzione di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 2005; vol. I, pp. 147-51.
  2. «Il monaco, che viene mandato fuori per qualche commissione [pro quovis responso] e conta di tornare in monastero nella stessa giornata, non si permetta di mangiare fuori, anche se viene pregato con insistenza da qualsiasi persona, a meno che l’abate non gliene abbia dato il permesso», Regola, LI.

 

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Storia triste del puntualissimo orso di Fiorenzo

Un interessante articolo di Edoardo Ferrarini sulla rappresentazione dell’amicizia nella letteratura agiografica altomedioevale1 ha indirizzato la mia attenzione su quattro coppie di santi amici, tutti monaci o eremiti, o comunque tali all’epoca del primo sorgere del sentimento in questione. L’articolo mira a illustrare, senza pretese di completezza, ma con bella scelta d’esempi, come l’amicizia monastica non sia affatto un tema alieno ai racconti di santità, quasi fosse un tratto di debolezza che scalfirebbe l’immagine solida e compatta dell’uomo di Dio. Come spesso accade, il primo moto di interesse è scattato in me grazie ai nomi di questi amici: Eutizio e Fiorenzo, Fulgenzio e Felice, Romano e Lupicino, Paterno e Scubilione. L’altro aspetto interessante è che le fonti citate sono relativamente accessibili, anche in traduzione italiana, sicché sono andato a vederle, a cominciare dalla prima.

La storia di Eutizio e Fiorenzo è narrata da Gregorio Magno nel terzo libro dei suoi Dialoghi2 e inizia dalle parti di Norcia, dove i due vivono nel medesimo oratorio conducendo vita santa. I caratteri sono diversi e mentre Fiorenzo, più contemplativo, si dedica soprattutto alla preghiera, Eutizio va in giro, predica e converte, si fa conoscere, insomma, tanto che, alla morte del loro abate i  monaci di un vicino monastero lo chiamano a guidare la comunità. Eutizio va, Fiorenzo resta, ma dopo un po’ comincia a soffrire la solitudine e invoca il Signore «che gli desse un compagno che vivesse insieme con lui».

«Appena terminata la preghiera, uscì dall’oratorio e trovò davanti alla porta un orso: con la testa chinata verso terra e senza segno di ostilità nei movimenti»: è il nuovo compagno che ha chiesto a Dio, Fiorenzo non ha dubbi, e prega subito l’orso di dargli una mano con le pecore, portandole al pascolo in determinati orari: «E l’orso gli ubbidiva scrupolosamente: mai tornava a mezzogiorno quando doveva tornare alle tre, né alle tre quando doveva tornare a mezzogiorno».

La fama del prodigio si diffonde, e un giorno alcuni monaci di Eutizio, invidiosi perché il loro abate non fa miracoli, mentre il rozzo Fiorenzo è palesemente prediletto dal Signore, tendono un agguato all’orso e lo uccidono. Fiorenzo lo aspetta fino a sera, «e prese a dolersi perché non tornava l’orso che, nella sua semplicità, egli soleva chiamare fratello [quem ex simplicitate multa fratrem vocare consueverat]», infine lo va a cercare e scopre l’orribile verità.

Fiorenzo si dispera, ed Eutizio accorre, anzi lo fa «venire presso di sé per consolarlo», ma l’amico è sconvolto e si lascia andare a una maledizione: «Spero in Dio onnipontente che chi ha ucciso il mio orso, del tutto inoffensivo, riceva davanti agli occhi di tutti la punizione della propria malvagità». Si ricorderà che Dio era solito accogliere con particolare sollecitudine le richieste di Fiorenzo, e infatti «i monaci che avevano ucciso l’orso furono colpiti subito da elefantiasi e morirono col corpo incancrenito [statim elefantino morbo percussi sunt, ut membris putrescentibus interirent]». (Laddove è interessante notare che, essendo la vittima un animale, la pena è «intitolata» a un altro animale.)

Gregorio si premura di commentare che Fiorenzo rimase sconvolto e molto si pentì del sua maledizione, cui Dio acconsentì con un preciso disegno, e se continuò a compiere miracoli durante la sua vita, Eutizio, «che era stato compagno di Fiorenzo nella via di Dio, divenne illustre per i miracoli compiuti soprattutto dopo la morte». Parità.

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  1. Edoardo Ferrarini, «Gemelli cultores»: coppie agiografiche nella letteratura latina del VI secolo, in «Reti Medievali Rivista» XI (2010), 1 (gennaio-giugno); consultabile qui.
  2. Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli, II, a cura di M. Simonetti e S. Pricoco, Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla, 2006, pp. 62-73.

 

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«Una ucella picciola e nera» (Dice il monaco, XXXIV)

Scrive fra’ Domenico Cavalca, o.p., traducendo all’inizio del Trecento il secondo libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, cioè la «Vita di San Benedetto»:

Or essendo [Benedetto] un giorno solo venne lo tentatore. Ed una ucella picciola e nera che comunemente si chiama merla, e cominciolli a volare intorno a la faccia, ed importunamente li veniva infino al volto, e sì presso che co mano l’avarebbe potuta prendare se avesse voluto. Per la qual cosa Benedetto maravigliandosi fecesi lo segno de la croce, e la merla si partitte. E partendosi la merla sentitte Benedetto tanta e sì forte tentazione quanta mai provata n’avea. Ché una volta avea Benedetto veduta nel secolo una bella femmina, la quale lo nemico li ridusse a la memoria. E formolli in tal modo ne la imaginazione la bellezza di questa femmina, e di tanto fuoco li accese l’animo, che la fiamma dell’amore appena li capeva nel petto, e quasi poco meno, vinto di disordinato amore, deliberava di lassare l’ermo. E subitamente soccorso da grazia di Dio, tornando a sé medesmo e vergognandosi, vedendo quinde presso un grande spineto ed orticheto, spogliossi ignudo e gittossi fra quelle spine ed ortiche.

Domenico Cavalca, Il «Dialogo» di S. Gregorio, II, in Volgarizzamenti del Due e Trecento, a cura di C. Segre, UTET 1980, pp. 245-46; scrive, tra l’altro, il professor Segre: «La prima attività del Cavalca sembra essere stata quella di traduttore, con le Vite dei Santi Padri e il Dialogo (ma, secondo la Cenname, nell’ordine opposto), certo anteriori al 1333, e forse di molto; e più che di traduzioni, si deve parlare di garbati, e sostanzialmente abbastanza fedeli, rifacimenti».

 

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