Gregorio I è papa da circa tre anni (è salito al soglio nel 590) e non passa giorno in cui non pensi con nostalgia ai suoi anni in monastero, a Sant’Andrea al Celio. Ne parla spesso nelle lettere e non perde occasione di ribadirlo quando mette mano al mirabile proemio del primo libro dei Dialoghi, un testo che «è stato celebrato da critici illustri (Auerbach in testa) come scritto di straordinaria modernità e collocato tra i modelli, nel solco del grande Agostino, della letteratura di confessione» (Salvatore Pricoco1). L’ho riletto, nella traduzione delle Benedettine di Viboldone2.
1. Un giorno,
Sembrerebbe un attacco comune, tipico di Gregorio peraltro, ma a me la formula dà un senso preciso come di apertura di un sipario, come invito a vedere, a immaginare, oltre che ad ascoltare. E infatti ci sarà molto da immaginare nei primi paragrafi e non pochi saranno i termini riferibili al vedere e allo sguardo.
oppresso dall’insopportabile invadenza [agitazione, per Simonetti] di alcuni uomini di mondo [seculares], ai cui affari troppo spesso siamo costretti a pagare un tributo, anche quello che sicuramente non starebbe a noi accollarci,
Una precisazione che non ci si aspetterebbe da un papa che lungo tutta la sua «carriera» ha sempre sentito il valore della responsabilità del pastore.
andai a cercarmi un luogo appartato [quindi dove non esser visto], consono alla tristezza, perché capissi lucidamente tutto ciò che, nelle mie occupazioni, mi metteva a disagio, e potessi considerare liberamente tutti i quotidiani motivi di afflizione.
Bello e quasi romantico il «luogo appartato consono alla tristezza», il locum amicum moerori, dove il moeror accoglie un vasto insieme di significati da tristezza a malinconia, da pena ad afflizione a dispiacere.
2. Era già un po’ che me ne stavo lì, triste e silenzioso,
Nel testo latino Gregorio precisa che se ne stava seduto, e come non vederlo, lì, fermo, lo sguardo perso nel vuoto a ripassare i motivi concreti della propria depressione, magari concedendosi una punta di autocommiserazione, solo una punta, prima che arrivi l’amico. I due, è evidente, si sono sorrisi vicendevolmente.
quando mi si presentò il dilettissimo figlio e diacono Pietro, legato a me in intima amicizia fin dal primissimo fiore della giovinezza e compagno [socius] delle mie ricerche [meglio, compagno di ricerche] sulla Parola Sacra. Vedendomi sopraffatto da quella forte depressione, mi disse: «È successo qualcosa di nuovo, che la pena ti invade più del solito?»
Che succede, Gregorio? Qualche nuova tegola? Anche qui l’evidenza della domanda e della situazione, familiarissima, è tale che sembra quasi di sentirla, quella domanda.
3. Io risposi: «Pietro,
Ma no, niente, le solite cose… Il fatto è che
la tristezza ci cui io soffro ogni giorno, mi è sempre vecchia, perché ormai consueta, e sempre nuova perché ogni giorno si accresce. In effetti, il mio animo infelice, oppresso dalla ferita del quotidiano affaccendarsi [pulsatus vulnere occupationis], si ricorda di com’era un tempo in monastero quando tutte le cose caduche erano da lui poste su un piano inferiore; di come dominava tutte le realtà passeggere, e aveva abitualmente il pensiero alle realtà celesti; si ricorda che, pur trattenuto nella condizione terrena, superava attraverso la contemplazione le frontiere della carne e amava la stessa morte, che pressoché da tutti è ritenuta una condanna, quale ingresso nella vita e premio alla fatica.
La risposta, come anche il paragrafo seguente, non è improvvisata, si capisce che le parole sono state messe a punto in lunghe meditazioni ripetute. Da notare come le «frontiere della carne», che Simonetti rende con «angustie della carne», in latino è carnis claustra, ed è pensabile che un ex monaco qual era Gregorio non usi quel termine a caso, ancorché al plurale – il corpo quale secondo chiostro.
4. Ma ora a motivo della responsabilità pastorale si affanna [l’animo] per le questioni degli uomini di questo mondo, e dopo la bellezza stupenda di quella pace è imbrattato dalla polvere dell’azione terrena. Una volta che ci si è dispersi nell’esteriorità per venire incontro alla moltitudine, anche quando si ricerca l’interiorità ci si ritrova indubbiamente molto svuotati.
Certo, le strade della Terra sono polverose e se ci si muove lungo di esse, ecc. «Incontro alla moltitudine», cioè «incontro alle esigenze di molti» (Simonetti), da cui emerge proprio la folla di chi si rivolge al papa e chiede, chiede, chiede.
Perciò da una parte valuto ciò quello che devo sopportare, dall’altra quel che ho perduto, e quando intuisco la profondità della perdita mi si fa più greve il fardello da portare.
Se ci ricordiamo che siamo alla fine del VI secolo «quello che devo sopportare» suona incredibilmente «moderno». È il momento della metafora della nave che, quantunque classica, non è ancora, alla fine del VI secolo appunto, del tutto consumata e inutilizzabile, anzi:
5. Ecco, ora sono sbattuto dai flutti del grande oceano, e nella navicella del mio spirito sono squassato dall’infuriare di una violenta tempesta. E guardando alla vita di prima, quasi voltandomi a guardare indietro, sospiro al vedere il lido lontano. E ancora più pesante è il mio disagio quando, sballottato su giganteschi cavalloni, riesco a malapena a scorgere il porto che ho lasciato.
Guardando, guardare, vedere, scorgere…
Questa infatti sono le cadute dello spirito [o della mente, mentis, ancora più adatto a noi contemporanei]: prima si perde il bene che si possiede, ma ci si ricorda ancora di averlo perduto; poi però, allontanandoci ulteriormente da esso, ci si dimentica anche del bene che si è perduto, e succede che non si vede più neppure con lo sguardo della memoria ciò che una volta si possedeva in atto.
Non è anche, forse, l’esatta fotografia della vecchiaia, come l’abbiamo vista e come la temiamo? Ricordarsi dapprima del buono che, pure, è stato e poi, a poco a poco, a mano a mano che si procede in gurgite vasto, non ricordarsene nemmeno più?
Così si produce ciò di cui dicevo, che cioè quando si è navigato a lungo, non si vede più neppure il porto di pace che si è abbandonato.
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- Salvatore Pricoco, Introduzione a Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), introduzione e commento a cura di S. Pricoco, testo critico e traduzione a cura di M. Simonetti, 2 voll., Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori 2005.
- San Gregorio Magno, L’uomo di Dio Benedetto. La vita narrata nel II Libro dei Dialoghi, testo latino, versione e note a cura delle Benedettine di Viboldone, Abbazia di Viboldone 19883.