Il trattatello sui demoni del cisterciense Cesario di Heisterbach, quinta parte del suo Dialogo sui miracoli (1223), è considerato «la prima raccolta di racconti edificanti di cui abbiamo notizia», all’inizio di quella tradizione di exempla che sarà ricchissima e che sarà studiata a fondo anche dagli storici del costume e della mentalità medievali – la scuola delle Annales, Le Goff, J.-C. Schmitt e il grande Aron Gurevič, che scrive: «La demonologia di Cesario è straordinariamente ricca e varia; sotto questo aspetto egli non solo regge la “concorrenza” dei suoi predecessori antichi, Gregorio I ad esempio, ma forse è addirittura superiore a loro per l’intima conoscenza che ha del diavolo e di tutti i suoi imbrogli e intrighi. La sua opera è la più preziosa testimonianza delle credenze popolari di quel tempo».
I 56 capitoli che compongono la parte dedicata ai demoni, infatti, sono sì popolati da monaci, novizi, preti e vescovi, ma anche da cavalieri, contadini, fabbri, studenti, campanari, osti e ostesse, che si muovono tra chiostri e foreste, taverne e strade solitarie e sono «colti ognuno nella prosastica banalità del proprio agire quotidiano, ritratti nella flagranza delle loro consuetudini» (S.M. Barillari).
Consuetudini, nelle crepe delle quali il «diavolo» s’infila, volta a volta nelle forme, a me, oggi, familiarissime e per nulla trascendenti del «demone della stanchezza», della distrazione, della frustrazione, della curiosità morbosa (anche di quella sana), dell’impazienza, della noia e di tutto ciò che forse, nel bene e nel male, si può riassumere in un’unica rubrica: quella del «demone della coscienza». Gli esempi interessanti, e divertenti, sono tanti che mi verrebbe voglia di trascrivere tutto il libretto.
C’è il cavaliere Enrico che si spazientisce e, chiesto al diavolo come faccia a sapere tante cose, si sente rispondere che «al mondo non accade nulla di malvagio di cui io sia all’oscuro. E perché tu sappia che ciò risponde al vero, ecco: in tale città e in tale casa tu hai perduto la tua verginità». C’è il prete Adolfo di Bonn che, mentre sta giocando a dadi con suo cognato, viene richiesto di recarsi al capezzale di un’anziana morente e risponde: «Verrò quando avrò finito la partita», dopodiché va tutto storto. C’è l’ossessa di Aquisgrana che, dopo l’esorcismo, confessa «di averlo sentito entrare [il diavolo] dall’orecchio nel momento in cui suo marito, in preda all’ira, le aveva detto: “Vai al diavolo!”». C’è il converso del monastero di Campo «che aveva imparato dai monaci, con i quali chiacchierava, il latino quel tanto che bastava da essere in grado di leggere un testo scritto. Lusingato e tratto in inganno da una simile opportunità [per carità, stattene al tuo posto], di nascosto si fece redigere dei libriccini adatti per impratichirsi nella lettura, e cominciò a compiacersi del vizio di proprietà». C’è lo scalco dell’abate di Prumm che fa una passeggiata lungo un ruscello, la sera di san Giovanni, e, vedendo «una figura in una veste di lino e pensando che stesse facendo degli incantesimi, come è usanza di molti in quella notte», prova a catturarla. C’è la donna di Aarau che «avendo un marito ubriacone, la notte non andava mai a dormire prima che lui tornasse dalla taverna… e stava seduta davanti alla porta di casa…». Ci sono Sistappo e Godefrido,«uomini ricchi e onesti, e molto amici fra loro», che stanno andando a Santiago e un giorno, «mentre cavalcavano da soli, essendo gli altri compagni più avanti», cadono vittima del demone della discordia. C’è suor Eufemia, cui il diavolo, mentre è ancora novizia, sussurra all’orecchio: «Eufemia, non prendere i voti, prenditi invece un uomo giovane e bello e goditi con lui i piaceri del mondo [accipe virum iuvenem pulchrumque, ut cum illo deliciis mundi fruaris]. Senz’altro non ti mancheranno vesti preziose e cibi prelibati. Se invece entrerai nell’Ordine sarai sempre povera e cenciosa, soffrirai la fame, la sete e il freddo, e non avrai da questa vita nient’altro di buono».
E ci sono i monaci di Himmerode, nell’orto, intenti a piantare i cavoli; e tra loro c’è Tommaso «cui cominciò a passare per la testa tale considerazione: “Se adesso tu fossi a casa di tuo padre, neppure la tua serva si degnerebbe di fare un lavoro così vile”.» Colpa del diavolo, ovviamente.
(1-continua)
(Cesario di Heisterbach, Sui demòni, Edizioni dell’Orso 1999. Cfr. anche Aron Gurevič, Contadini e santi, Einaudi 1986.)
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E Vincenzo da Scupoli non sarebbe da prendere in seria considerazione?