Carlo Maria Martini e Viboldone (pt. 1)

Umile fedeltà quotidianaMaria Ignazia Angelini ha recentemente curato (con «trepidazione») un bel volume che raccoglie gli interventi di Carlo Maria Martini, quando era arcivescovo di Milano, rivolti alla comunità monastica benedettina di Viboldone, di cui è badessa dal 1996. Si tratta di testi, scritti o pronunciati, che vanno quindi dall’aprile 1990 (un primo colloquio conoscitivo, due mesi dopo l’insediamento) al luglio 2002 (il documento conclusivo della visita canonica, quando già era stato nominato il successore); per lo più omelie, in occasione di celebrazioni, ricorrenze o professioni solenni, che tornano con insistenza su temi monastici, sia di carattere generale, sia legati al ruolo svolto da un monastero nella chiesa contemporanea, e in particolare nella diocesi di una grande città.

Sono un documento molto significativo, anzitutto perché sono parole intime e non pubbliche, segno di un dialogo concreto tra due entità precise: un vescovo e una comunità di monache, uomini e donne di fede che parlano tra loro; inoltre perché anche un lettore che non ha «nessuna metafisica, un puro positivista» (per usare parole del cardinale) non può non essere colpito dal garbo, dalla discrezione e dai sentimenti amorosi di tale dialogo.

La cautela con cui il cardinale si rivolge alle monache, affrontando qualsiasi argomento, dal senso di una professione solenne all’importanza del lavoro manuale, dalla cura delle anziane alla necessità di limitare l’uso del parlatorio, è seconda soltanto alla precisione con la quale i testi citati dalle Scritture (la Parola) vengono esplorati per trarne riflessioni, indicazioni, speranze. Ho detto «cautela», ma mi verrebbe da usare «circospezione» per definire il modo in cui Martini affronta i vari temi, come se ritenesse di essere sempre e soltanto ai preliminari (cosa che peraltro forse di potrebbe dire della vita terrena di un cristiano: un preliminare, «qui allora noi compiamo qualcosa che avrà la sua spiegazione nell’eternità: là capiremo il senso di ciò che oggi viviamo»), senza per questo tirarsi indietro quando occorre essere chiari o comunque prendere una decisione.

Oltre alla memoria ininterrotta della Parola (una «tenace fedeltà»), «il segno della comunità religiosa deve essere segno che la comunità è possibile, che il perdono è possibile, che la ricostituzione dell’unità è possibile», dice il cardinale, ed è un punto sul quale ritorna spesso, individuando in esso, forse, lo specifico più attuale della comunità monastica: «Questo è il compito altissimo, potremmo quasi pensarlo utopico: come è possibile vivere in tanti insieme ed essere un cuor solo e un’anima sola con tutte le differenze che ci sono tra noi, con tutte le piccole conflittualità che attraversano la vita quotidiana?», e ancora: «Occorre mostrare la possibilità di una comunità alternativa, cioè di una comunità che non si separa dagli altri».

E ancora, e qui Martini cita Basil Hume, quasi accettandone il punto di vista, se così posso dire, ancor più riduzionista: «”Noi non ci comprendiamo come gente che ha una particolare missione o funzione nella Chiesa. Noi non ci proponiamo di cambiare il corso della storia: noi siamo unicamente là, in modo quasi accidentale dal punto di vista umano e felicemente continuiamo a essere semplicemente là”. Questo mi pare interessante per dire che anche l’idea di chissà quale missione, a un certo punto va corretta. Ci siamo, siamo lì: viviamo, preghiamo, siamo lì e questo è ciò che siamo e vogliamo essere volentieri…»

(1-continua)

Un’umile fedeltà quotidiana. Parole come benedizione: il vescovo Carlo Maria Martini alla comunità monastica, a cura di M.I. Angelini, prefazione del card. A. Scola, Edizioni Viboldone 2013.

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