Nel 1904 Vasilij Rozanov pubblica, su rivista, il resoconto di un viaggio compiuto presso tre monasteri dedicati al culto del beato Serafim di Sarov, il grande ieromonaco eremita russo vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento. Le motivazioni personali del pellegrinaggio (la preoccupazione per la salute della figlia Tanja) sono escluse dalla breve trattazione, che affronta invece temi più generali legati al monachesimo e al suo significato in seno al cristianesimo.
A parte il non trascurabile interesse per la spiritualità ortodossa, di cui non so praticamente nulla, e sorvolando sulle sue peculiarità, il testo di Rozanov rappresenta per me uno splendido esempio di riflessione laica (o quanto meno semi-laica, considerando la personale religiosità del grande critico letterario) sul monachesimo. Più precisamente è una testimonianza incredibilmente onesta e vivida delle impressioni provate al cospetto di alcuni monasteri, nello specifico femminili. Da queste pagine infatti emerge quel senso di attenta sorpresa che genera la visione di una comunità unita e armoniosa. Quel senso di «realtà alternativa» che riconosco anche nelle mie impressioni: «In fondo, espressioni come la “società cristiana” o la “famiglia cristiana” [cioè la Chiesa] indicano piuttosto delle problematiche e non dei fatti, mentre il monastero è una realtà, che per di più ha preso corpo già in tempi remoti». Costruiti da anime «che avvertirono dentro di sé una primigenia repulsione per la molteplicità e la varietà», che pronunciarono «il voto spaventoso ed eterno di sottrarsi alle esigenze dello sviluppo», i monasteri sono il fatto della fede.
Sono luoghi, umani, terreni e tangibili, in cui la bellezza si è trasformata in consuetudine, in cui la cordialità è diventata respiro, in cui la «reciproca sollecitudine» mostra il potere che una regola può avere su un individuo. Nei monasteri «non vi sono culture diverse e incompatibili su uno stesso fazzoletto di terra. Per questo [premono] sull’anima, affascinandola per il semplice fatto di essere un luogo di unità e integrità». Sono comunità di uomini e di donne che espongono un’alternativa possibile. Una possibilità che non perde il suo valore anche quando, come nel mio caso, non se ne segue il presupposto: resta la dimostrazione che si può convivere diversamente.
Questa estrema concretezza dell’esperienza monastica fa dire a Rozanov una cosa di rara portata: «Non fu la Chiesa a generare i monasteri, bensì questi ultimi a dare vita alla Chiesa, a decretarne l’ordinamento e lo spirito, l’abito e i propositi. I monasteri sono quelle piccole isole primordiali che, immerse nell’antico oceano del paganesimo, iniziarono a saldarsi tra loro fino a formare il continente della Chiesa».
Il pensiero, e il testo di Rozanov, non si esaurisce certo qui, ma questa è la prima lezione che ne ho tratto. A me della Chiesa non importa, diciamo così, importano invece le persone, ed è per questo che guardo ai monasteri. Perché, come commenta Rozanov, «qualcuno può anche non amare Dio, ma come non amare questo amore per Dio?» Sintesi che proverei a remixare così: qualcuno può anche non credere in Dio, ma come non credere a chi vi crede?
E più esattamente: io non credo in dio, devo credere a coloro che vi credono?
Vasilij Rozanov, Per eremi silenziosi, Lindau 2010.
Chiudi il post con una domanda ma la risposta, se esiste, quale sarebbe ?
Annarella, semplificando al massimo, per me la risposta è sì. Tu che ne pensi?
Mi inserisco con una riflessione un po`
particolare: i russi mi hanno sempre incuriosito e MrPotts evidenzia l´oggetto della mia curiosità in modo direi semplice ed efficace. Il punto é questo: per i russi la domanda fondamentale della vita é nella sfera dell`
amore (volontá? sentimenti?) e per noi occidentali la domanda é sulla veritá: credere se una cosa sia vera oppure no. Riuscissimo a fare una sintesi…