Capo XVII. Sua Infermità, e Morte.
Approssimandosi quel tempo fortunatissimo in cui era stato riserbato alla Ven. nostra Madre il premio delle sante sue opere; volle la divina Pietà nettarla fin da quella polve, che non si ammette nel Cielo; e nella fornace di gravissima tribolazione farla divenire oro il più perfetto nella virtù. Avea essa sofferta penosa e lunga infermità di molti anni con sì raro esempio di costanza, che senza mai chiedere ajuto per l’afflitto ed addolorato suo corpo, vedevasi sempre uniforme al divino volere. Pur nondimeno nelle bilancie di Dio pene di tanto peso, e virtù così eccelse, non bastarono a contentare l’amabile rigore di sua giustizia.
Eccola perciò nel mese di Decembre del 1611, oppressa da ardentissima febbre, con insulti così gagliardi, che arrivò vicina al termine de’ suoi giorni; ed eccola insieme munita col santissimo Viatico ed estrema Unzione, ricevuti da essa con quelle più esatte disposizioni che si sarebbero ricercate, per rendere in quel punto medesimo strettissimo conto al Signore della sua vita. Indi avanzossi il morbo a passi così veloci, che abbandonata da’ sensi esterni, credettero le Monache avere di già esalato l’ultimo spirito. Per restarne dall’intutto sicure, vollero farne altra prova. Aprirono una fenestra, ch’era dietro al letto della Madre, ed osservarono che, quantunque i raggi del Sole battessero a dirittura nella sua faccia, essa non faceva alcun moto. Durando per qualche tempo in tale stato, pigliarono le Monache le vesti, che bisognavano per sua sepoltura. Ma ecco ritornare alla nostra Ven. Madre i sentimenti; dar essa segni di vita, e profferire alcune parole, quantunque non si abbia penetrato locché significassero.
Da quell’ora fino alla morte, cioè per lo spazio non interrottto di tredeci mesi, restò essa come fuori di sé, e sempre oppressa da tormenti gravissimi, interni ed esterni. Le pareva fosse racchiusa in luogo sporco e puzzolente, e che ivi stasse sotto a’ piedi di cavalli e di altre bestie. Pativa in tutta la sua persona dolori così veementi, e gagliardi, che non potea in conto alcuno voltarsi dall’un fianco all’altro. Se le attrassero inoltre i nervi, e perciò non potea stendere commodamente il suo corpo, in cui per la lunga dimora del medesimo sito se le aprirono molte piaghe. Dalle ore 22 fino alle cinque della notte fetor così orribile la opprimeva, che sembravale di restar suffogata. Puzzolente al suo palato era qualunque cibo, e schifose le acque più cristalline. Le diligenze, che adoperavansi dalla nipote Suor Benedetta la Croce, di farla bere in vasi di limpidissimo cristallo, e di condire le sue vivande cogli aromi più squisiti, nulla giovarono ad allegerirla da quella nausea. Dio in somma volea che patisse senza conforto. […]
Immersa nondimeno nel pelago di tanti dolori nel corpo, e di così gravi desolazioni di spirito, non lasciava di ricorrere allo spesso alla somma bontà dell’infinito dilettissimo suo Bene, al dolce padrocinio della Vergine Immacolata, a S. Scolastica e ad altri santi. Confessarono anzi le Monache, le quali l’assistettero nel corso di quella malattia, che nelle solennità principali di Maria Vergine, di S. Scolastica e degli altri Santi, per i quali professava divozione particolare, infuocavasi di santo amore e facea con essi (come se ivi fossero stati di presenza) teneri e fervorosi colloquj.
Nel giorno finalmente della nostra Concittadina V. e M. S. Agata, cioè a 5 Febbraio del 1612, le sopragiunse febbre così gagliarda, e per tutta la persona tremor così forte, che ben si argomentò vicino l’ultimo periodo della sua vita: imperocché a 17 dello stesso mese, alle ore sette della notte del Venerdì (giorno, appunto, in cui era nata), in età di anni settantotto, e nove mesi, dopo aver governato per lo spazio di anni presso a trentasei, tra le orazioni e le lagrime delle amate sue Religiose, rese dolcemente l’anima al suo Creatore.
Fu in quella, dir non saprei se lagrimevole o faustissima, circostanza osservato, non tanto l’aver il suo corpo, prima attratto in tutti i suoi nervi, ripigliato l’antico proporzionato suo sito, con insieme aver divenuto morbido e pieghevole, quanto che il suo volto, prima pallido e smunto per i dolori acerbissimi, che lungamente la tormentarono, siasi reso chiaro, sereno e bello, come di un Angelo.
♦ Michele Scavo, Vita della venerabile suor Benedetta Reggio: abbadessa perpetua e fondatrice del monistero dell’Immacolata Concezione della città di Palermo, Palermo 1742, nella stamperia di Stefano Amato (che si può leggere qui).
Qui, cliccare su “mi piace” sarebbe forse fraintendermi. Tuttavia non può che farmi riflettere e, in un certo senso, riportarmi alla mente “La morte di Ivan Il’ic”. Grazie.
Volevo mettere qualcosa che richiamasse l’ultimo libro citato.
Grazie a lei.