Gli elementi base della vita comune

C’è un curioso errore di stampa sull’ultimo numero di «Vita Nostra», che dedica un certo spazio ai lavori del Capitolo generale dell’Ordine Cisterciense della Stretta Osservanza (ocso) tenutosi ad Assisi lo scorso settembre 20171. Nell’indice del fascicolo, e nel titolo stesso dell’articolo, l’intervento di dom Mauro-Giuseppe Lepori, abate generale dell’altro ramo della famiglia cisterciense, è indicato come Il carisma monastico nell’XI secolo. Sono sufficienti le prime righe per capire che un errore si è insinuato nel secolo: all’abate generale ocist, e a un gruppetto di altri superiori di comunità, è stato chiesto infatti di parlare del carisma monastico nel XXI secolo. La svista tipografica è curiosa perché è significativa: non ci sarebbe poi nulla di strano se dom Lepori avesse parlato del carisma monoastico di mille anni fa.

Tanto più se si considera che a un certo punto del suo intervento, impostato sul concetto di «fare memoria» e sul recupero di un senso profondo di fecondità e discendenza, dom Lepori afferma: «Proprio come ho la certezza di essere legato a Adamo ed Eva da una catena ininterrotta di generazioni, così, se oggi sono cistercense, significa che una misteriosa catena spirituale collega senza interruzioni la mia vocazione a quella dei primi abati e monaci di Cîteaux e attraverso di loro, senza interruzioni, a san Benedetto». Come devo aver già sottolineato diverse volte, per un laico questa dimensione temporale unitaria, per quanto abbia conosciuto stagioni di sfilacciamento, è uno dei tratti più interessanti del monachesimo, una continuità, tra l’altro, di qualità decisamente diversa rispetto a quella, molto ribadita ma assai meno sottoscrivibile, della Chiesa.

Va detto che tale «spirito di corpo» si manifesta con maggior cautela negli interventi degli altri relatori, proprio a cominciare da quello dell’abate generale ocso. Se dom Lepori invita a non confondere fecondità e discendenza col numero delle vocazioni2, dom Eamon Fitzgerald aggira le statistiche – «di cui tutti avete un’idea generale» – e sceglie di parlare di due comunità precise, con i loro problemi di spazi abitativi, di organizzazione, di tempi, di lavoro, di reddito. E lo fa per introdurre, con discrezione e senza ambiguità, il tema fondamentale del rinnovamento: rinnovamento delle forme materiali e spirituali (ammesso che si possano scindere) del monachesimo, affinché possa ancora essere la risposta meditata e definitiva di individui del XXI secolo.

Rifacendosi a un recente documento della Congregazione per gli istituti di vita consacrata3, per ogni aspetto che deve essere investito da tale rinnovamento dom Fitzgerald sceglie con molta attenzione le parole, come ad esempio nel caso dell’autorità: «Anche il servizio dell’autorità è oggi problematico per insufficiente sussidiarietà e per debole e inefficiente corresponsabilità nella pratica del governo. In argomenti seri, ricorrere a un voto di maggioranza secondo la legge, senza fare lo sforzo di spiegare, di provvedere a chiarificazioni oneste e chiarire le obiezioni, non è una pratica saggia, e molto meno ancora stringere alleanze o gruppi di interesse. Si oppone a una comunione carismatica dell’istituto e milita contro il senso di appartenenza»4.

L’«oggi» (il domani) e il «mille anni fa», con una tensione che trovo molto istruttiva oltre che interessante, si alternano con sorprendente elasticità nelle parole degli abati e delle badesse cisterciensi. Come in quelle di uno dei più giovani di loro, l’abate del monastero inglese di Mount Saint Bernard, dom Erik Varden (nato nel 1974)5. «In questa assemblea», esordisce dom Varden, «io sono un operaio dell’undicesima ora. Molti tra voi, per non dire la maggioranza, eravate già monaci e monache prima che io nascessi», e prosegue interrogandosi sulla «stagione del cambiamento» degli anni ’60 e ’70: che cosa è rimasto, che cosa è entrato a far parte di una tradizione, «cosa siamo diventati?» Sembra quasi, leggendo tra le righe del suo intervento, che per la nuova generazione sia giunto il momento di tornare alle fonti, di risalire ancora una volta alla Regola, di recuperare un patrimonio, di ripartire dall’abc: «Permettetemi di fare ancora una volta riferimento alla mia comunità», chiede dom Varden (ed è una richiesta molto indicativa). «Abbiamo dovuto lavorare duramente per ritrovare gli elementi base della vita comune, come il capitolo quotidiano, la lectio divina e la preghiera silenziosa in comune, una cultura del pasto preso insieme. Questo lavoro di unificazione è stato condotto nel bel mezzo di una tendenza alla dispersione, evidente fin nel modo in cui il nostro monastero era organizzato. Non succedeva granché al centro, la vita scorreva alla periferia e questo privava il corpus monasterii della sua vitalità. Perché la vita fiorisca sembra essenziale consolidare il centro.»

Già, gli elementi base della vita comune.

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  1. «Vita Nostra», Rivista periodica dell’Associazione «Nuova Cîteaux» VIII (2018), n. 1 (marzo). Qui si può leggere una cronaca del Capitolo, e qui si possono ripercorrere le principali conferenze.
  2. Mi sento sempre a disagio quando vedo che la preoccupazione di avere vocazioni per i nostri monasteri è spesso meno la preoccupazione di una fecondità che quella di poter tenere in piedi la casa, l’azienda, gli edifici, la proprietà. È come se si volessero vocazioni solo in funzione della struttura, invece di desiderare semplicemente di trasmettere loro la vita, la vocazione come vita.»
  3. Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, Per vino nuovo otri nuovi. Dal Concilio Vaticano II la vita consacrata e le sfide ancora aperte: orientamenti, LEV gennaio 2017.
  4. L’intervento, in inglese, di dom Fitzgerald può essere ascoltato e visto qui.
  5. Anche il suo intervento, sempre in inglese, è stato registrato e può essere ripercorso qui.

 

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