«Più rapido d’un’anguilla» (Dice il monaco, XLIII)

Prima di riportare le parole dell’abate Sereno, nella settima delle Conferenze spirituali del Primo libro, Giovanni Cassiano fa una lunga confessione sull’apparentemente insormontabile difficoltà che incontra a mantenere la mente (il cuore, lo spirito, l’anima) tesa verso la contemplazione delle cose divine. È una pagina molto bella di amarezza e sconforto («A che giova aver appreso quel che è di sommo valore, se poi, pur essendo conosciuto, non può essere raggiunto?») che da un lato restituisce la profonda stanchezza della situazione attraverso una tortuosità al limite della sgrammaticatura, dall’altro brilla per finezza psicologica nella descrizione di una condizione assai nota anche mille e seicento anni dopo – indipendentemente dall’«obiettivo».

Dice infatti Giovanni Cassiano, intorno al 425:

E se poi il nostro spirito, svagatosi nei vari singoli momenti per futili divagazioni, viene ricondotto di nuovo al timore di Dio e alla contemplazione spirituale, prima ancora di essere trattenuto in essa, nuovamente si dilegua più che velocemente, e allora noi, come risvegliatici, accorgendoci che esso s’era distolto dal fine propostoci, e proprio mentre noi cerchiamo di ricondurlo a quella contemplazione, da cui s’era allontanato, pur con l’intento di trattenervelo con un tenacissimo impegno del cuore e quasi fissandovelo con certi legami, esso, pur continuando noi nel nostro tentativo, più rapido d’un’anguilla si sottrae dai recessi della nostra anima. Ed ecco che noi, pressoché sfiniti a causa di questa quotidiana ossessione, persuasi per di più che da quella lotta non deriva al nostro cuore alcun profitto di stabilità, affranti dalla sfiducia, siamo indotti a credere che non per nostra colpa, ma per un vizio derivante dalla stessa natura umana, tali divagazioni dell’anima sono congenite alla stessa personalità dell’uomo.

Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci (I-X), a cura di L. Dattrino, Città Nuova 2000, p. 273.

 

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