«In tutti i miei soggiorni non sono riuscita a ritagliarmi dei tempi per me, né come persona né come studiosa. Sono stata inserita a tutti gli effetti dentro la quotidianità claustrale, sia nella liturgia di preghiera, sia nella gestione della casa, nei turni della cucina come in quelli delle pulizie… Ho dovuto imparare a stare dentro.» Quella di Abitare il silenzio di Francesca Sbardella1 è stata una delle letture più interessanti degli ultimi tempi. Per almeno quattro motivi.
Interessante perché illustra la complessità del rapporto tra un antropologo e il suo «campo» di ricerca, proprio quando la posizione del primo non può essere di mero osservatore; interessante per le reazioni personali della studiosa alla situazione, seppur riportate con parsimonia; interessante soprattutto in quanto «reportage» dall’interno della clausura concepito e realizzato in maniera unica; interessantissima per le parole delle monache, riportate con ampiezza (e anche con significativo rispetto date sia in originale francese che in traduzione).
Il libro si basa su tre esperienze lunghe di postulantato, della durata di un mese (tra 2006 e 2010), condotte dall’autrice in due monasteri francesi di Carmelitane scalze (da notare che non tutte le monache coinvolte conoscevano la vera identità della studiosa, ma pensavano che fosse una vera postulante), più una serie di soggiorni brevi e di colloqui a posteriori con le monache. Non soltanto un’osservazione, quindi, per quanto ravvicinata, bensì una partecipazione diretta per poter «seguire parte del percorso di apprendistato attraverso il quale una donna si avvicina all’ambito claustrale e, intervenendo su se stessa, costruisce il proprio essere monaca». Tale partecipazione ha permesso alla studiosa di concentrarsi in particolare sulla quotidianità, sulle abitudini, sui gesti e comportamenti che definiscono la comunità. La verifica successiva attraverso i colloqui ha evidenziato, tra l’altro, significative tensioni tra quanto viene vissuto e quanto viene detto a proposito di questo vissuto.
Da non trascurare infine l’inserto fotografico, opera di Franco Zecchin, realizzato in un breve pomeriggio autunnale alla fine della ricerca: sedici scatti quasi del tutto «disabitati», e tuttavia assai eloquenti. Li ho guardati spesso (come se custodissero un segreto) mentre seguivo uno dei temi principali del volume, tanto importante da aver conquistato il posto d’onore nel titolo: il silenzio.
Il silenzio è infatti la prima dimensione che colpisce la postulante. L’ambiente cui si accede non è soltanto silenzioso (già questo rappresenta comunque uno stacco molto forte con la comune esperienza di vita al di fuori del monastero), è plasmato dal silenzio; non solo in relazione alla parola, rara e regolata, ma anche al rumore prodotto dalle proprie attività: si deve imparare a fare le cose, o anche semplicemente a camminare, in silenzio – ed è tutt’altro che facile («Durante la mia esperienza facevo sempre rumore, disturbando la quiete consueta… si sentiva quando io aprivo e chiudevo le porte, quando andavo in bagno, quando salivo le scale…»). La studiosa traduce l’esperienza soggettiva in dati: «La giornata in clausura è di 16 ore e 45 minuti (dalle 5:45 alle 22:30) per un totale di 1.005 minuti. Nell’arco dell’intera giornata ci sono 75 minuti di possibilità di verbalizzazione sonora libera (divisi in due ricreazioni ripsettivamente di 30 e 45 minuti), cioè il 7,6 per cento del tempo vissuto da svegli». Il silenzio, nelle sue varie forme, è strettamente connesso con il cuore della vita carmelitana – il desiderio di entrare in contatto con la divinità2 – e al tempo stesso si trasforma da strumento in modo d’essere: «L’aspirazione mistica sembra realizzarsi primariamente su base sonora, attraverso la scelta di rappresentazioni uditive che implicano l’acquisizione di tecniche del tacere e della parola, del corpo e del sentimento, tutte orientate verso la “riduzione” della persona». Tutto il superfluo è eliminato, compresi gli automatismi e le abitudini che «fuori» lubrificano gli scambi e la comunicazione: ciao, grazie, scusa, per favore. In clausura la comunicazione passa anzitutto attraverso le sguardo, il viso e i gesti: un «sistema di senso accettato e riconosciuto dal gruppo, che richiede tempi di apprendimento estremamente dilatati».
Modo d’essere che individua la monaca di clausura, il silenzio tuttavia non è un valore in sé, «se è utilizzato male – sottolinea suor Jeanne – significa che non c’è niente, solo il vuoto. Bisogna che sia un silenzio orientato, abitato. Orientato verso il Signore e gli altri».
(1-segue)
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- Francesca Sbardella, Abitare il silenzio. Un’antropologa in clausura, fotografie di Franco Zecchin, Roma, Viella, 2015.
- L’antropologa parla di «divinità», perché il suo sguardo si allarga ben al di fuori del singolo monastero, all’umanità e alle forme del sacro, ma per le monache «non si tratta di qualsiasi dio»: «Per noi si tratta di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo… Nel lavoro che ci aveva mostrato, l’ultima volta, il fatto che usasse il termine “divinità” ci disturbava un po’».