«Era Monaca in Sant’Anna di Venezia1, ma il silenzio del Chiostro non ispense in lei il desiderio di fama, e l’amore al suo sesso.»2 In attesa di rileggere – sì, rileggere, perché non mi ricordo quasi più niente – il suo Inferno monacale, ho letto l’edizione moderna dell’epistolario di Arcangela Tarabotti3. «Moderna» perché fu lei stessa ad approntarne la prima edizione nel 1650, due anni prima della morte, avvenuta all’età di 48 anni, 35 dei quali passati in un monastero nel quale era entrata (si chiamava allora Elena) per imposizione del padre: una figlia zoppa sarebbe stata difficile da maritare. Figura che viene automaticamente associata al fenomeno delle monacazioni forzate, suor Arcangela voleva soprattutto leggere, scrivere e partecipare a pieno diritto, ancorché donna, e donna religiosa, al dibattito culturale del suo tempo e della sua città, allo stesso livello dei signori letterati.
La pubblicazione del suo epistolario mirava proprio a legittimare questa volontà, rivendicando i giudizi positivi, ribattendo ai sarcasmi ricevuti sulle sue opere, non molte e dalla vita editoriale difficile, ed esibendo l’importanza dei suoi corrispondenti. Le Lettere familiari e di complimento, scrive Gabriella Zarri nella presentazione, «hanno come scopo primario quello di affermare la propria autorialità mettendola sotto la protezione di potenti patroni e di autorappresentarsi come scrittrice dispiegando allo stesso tempo una rete di relazioni non provinciali e non modeste».
Devo ammettere che ho fatto un po’ fatica a leggere questo italiano seicentesco appesantito e non sempre lineare («Spero nondimeno che la benignità di tanto signore non sii per isdegnare l’ammirazione e gli ossequi d’un cuore istupidito e riverente nelle considerazioni d’una maestà più che umana e di condizioni quasi divine, poich’anche lo stesso Dio gradisce quei ringraziamenti che provengono dalla purità d’un animo devoto», lettera 19) e ho finito per confondere il corteo delle Signorie Illustrissime, delle Vostre Eccellenze e Serenità che scorre da una lettera all’altra: Angelico Aprosio, Enrico Cornaro, Giovanni Dandolo, Angelo Emo, Francesco Erizzo, Giovan Francesco Loredano, Emilio Zanette e il cardinale Mazarino, tra gli altri.
Spiccano tuttavia, all’orecchio moderno, in mezzo a tante formule e giri di parole, le espressioni di quella sensibilità proto-femminista che sarà all’origine di molti studi e ricerche su questa monaca autodidatta e spesso afflitta da problemi di salute («fui assalita da una fierissima strettura di petto») e i lampi di una sicura autoconsapevolezza. «Arcangela Tarabotti», dice ad esempio di sé in terza persona, «non può essere una stella errante, ma più tosto una stella fissa, condannata nel cielo di un chiostro per sempre» (l. 50); e poi: «Per questo disprezzo gli uomini, che sono le più sprezzabili cose del mondo, e non alimento la lor ambizione con titoli od onori acciocché sappiano che, se ben si gloriano molti d’esser nobili, sono però anco loro tre once di terra, e benché involti nella porpora, finiranno come gli altri» (l. 185); e poi: «Se le donne sono croci che non s’adorano se non inorpellate, di ciò n’incolpi la maledetta avarizia degli uomeni che per poco dinaro anche venderon un Dio» (l. 68); e ancora: «Perché il quinto elemento di cui sono formata è la sincerità…»; e infine: «Sono fatta però a rovescio degli altri», e così via.
Spiccano inoltre le continue smentite di chi insinua che non siano veramente sue le opere che circolano a suo nome (da cui traspare talvolta una stanchezza che accora) e le repliche ai puri e semplici insulti. Così risponde, ad esempio, a chi la definì, due volte, «zoppa di corpo e di ingegno»: «Malagevole però e difficile mi riuscirà il fidarmi di Lei che con dilegi in faccia mia ha schernito quel diffetto col quale forse il mio genitore ha voluto contrasegnarmi per sua figliuola. Io ad ogni modo mi glorio d’esser zoppa perché così certo sarò delli invitati a quella gran cena che voi altri, dritti nel corpo ma zoppi nell’anima e stropiati nell’operazione, dal Padre di famiglia sete stati esclusi per sempre. A Dio» (l. 53).
Al di là della lettura non del tutto agevole, e anche del prevalente tono di querimonia, ampiamente giustificato, le sottolineature, come si vede, sono state frequenti, a riprova di una voce ostinata e appuntita che conquista lettera dopo lettera un’attenzione sempre più partecipe. Una voce che si concede qualche abbandono soltanto nelle lettere «di servizio» e in quelle, struggenti, all’amica prediletta.
(1-segue)
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- Il monastero di Sant’Anna in Castello, fondato nel 1242, fu dapprima abitato dai monaci agostiniani e passò poi, agli inizi del XIV secolo, «ad alcune divote femine, le quali, dirette da una Superiora, chiamata Maria Zotto, desideravano in luogo remoto servir a Dio professando la Regola di San Benedetto» (Flaminio Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia…, 1758, p. 107). A Sant’Anna presero il velo due figlie del Tintoretto, probabilmente Perina e Ottavia.
- Ginevra Canonici Fachini, Prospetto biografico delle donne italiane rinomate in letteratura dal secolo decimoquarto fino a’ giorni nostri, Venezia 1824, p. 162 (dove il cognome è erroneamente indicato come Trabotti).
- Arcangela Tarabotti, Lettere familiari e di complimento, edizione critica e scientifica a cura di M.K. Ray e L.L. Westwater, presentazione di G. Zarri, Rosenberg & Sellier 2005.