Nel brillante e tortuoso Giudica da te!, seconda parte pubblicata postuma (1876) di Per provare se stesso. Raccomandato ai contemporanei, Søren Kierkegaard sta svolgendo parallelamente il tema del Cristo come modello e quello dell’impossibilità di «servire due padroni» quando, un po’ a sorpresa, spunta un riferimento monastico. È un po’ che sta colpendo con decisione chi sta «abbassando il prezzo» del cristianesimo e ricorda come Gesù non abbia voltato le spalle al mondo benché sapesse che ne avrebbe sofferto l’irrimediabile condanna: «E rimase nel mondo, non si ritirò dal mondo, ma vi rimase per soffrire».
Attenzione, non è un argomento che Kierkegaard intende concedere ai predicatori che accusano di viltà «un certo genere di pietà […] che cerca un rifugio nascosto, lontano dal chiasso dei piaceri e dei pericoli del mondo, per servire, se possibile, solo Dio in profondo silenzio». Anche se non ce ne sono quasi più, non prendiamo in giro i monaci, noi che «rimaniamo nel mondo e facciamo carriera nel mondo, brilliamo nelle riunioni, sfoggiamo la mondanità»: la nostra cosiddetta pietà «non è davvero superiore a quella del monastero!»
Noi due padroni li serviamo in continuazione, senza tanti problemi, e vogliamo pure la medaglia. Chiudersi in un monastero, al riparo dal mondo, non è quello che ha fatto Gesù, non è «imitazione di Cristo» se si considera il modello, «ma, sebbene non sia la cosa più alta, sarà sempre possibile (e allora cosa importa in fondo che questa cosa non è la cosa più alta?), sarà sempre possibile che neppure uno di noi in questa generazione viziata e mondanizzata sia in grado di farlo».
Søren Kierkegaard, Per provare se stesso. Giudica da te!, a cura di M.L. Sulpizi, traduzione di K. Ferlov e M.L. Sulpizi, Ponte alle Grazie 1993, p. 134.