Le fotografie di Guiberto di Nogent, 1115

SogniEMemorieForse la cosa che mi ha colpito di più durante la lettura del De vita sua di Guiberto di Nogent è stata la straordinaria immediatezza di alcuni episodi che vi sono raccontati, di alcuni particolari direi addirittura. Il libro, composto tra il 1114 e il 1117, e che ho letto in traduzione italiana, è molto frequentato dagli storici, da quelli delle eresie medievali, per un paio di notevoli resoconti che contiene, da quelli delle vicende politico-ecclesiastiche francesi, da quelli «della mentalità» (o della «psicostoria», come la chiama Cardini nella postfazione), da quelli dell’agiografia, da quelli infine attenti alla ricostruzione medievale del concetto e della pratica dell’individualità – uno dei temi storiografici più appassionanti che conosca. Insomma, è una classica miniera, che può essere esplorata con strumenti diversi e riservare ogni volta diverse sorprese. Da un certo punto in poi l’ho sfogliato come un album fotografico, che avendo il vantaggio paradossale di essere privo di immagini, restituisce ancora più intensamente alcune situazioni. Ne ritaglio qualche esempio.

Cominciamo da Guiberto bambino, che ama moltissimo, riamato, la madre, che, vedova, lo affida alle cure di un maestro rigido e ottuso, benché santo. Il piccolo è trattato come un monaco in pectore; l’anziano Guiberto che ne scrive non rimprovera il rozzo chierico, che tra l’altro picchiava come un fabbro, ma una punta di strazio affiora: «Mentre i ragazzi della mia età correvano qua e là a piacere… io invece, inibito da continue coercizioni, vestito da pretino [clericaliter infulatus], stavo seduto a guardare dall’alto le bande dei ragazzi impegnati nel giuoco».

Il giovane Guiberto rischia di perdersi, ma poi un giorno, entrando nella chiesa di un monastero, vede un gruppo di monaci seduti in coro e ha la certezza della sua vocazione. Vestito infine l’abito, «mi prese d’un tratto una così grande passione di imparare che mi ci dedicai interamente […]. Quante volte credevano che dormissi e scaldassi sotto la coperta il mio corpo ancora delicato [et corpus sub pannulo fovere tenellulum], mentre invece costringevo la mia mente a formulare pensieri, oppure leggevo qualcosa nascondendo il libro sotto la coperta per timore del giudizio altrui».

Veglia pasquale a Soissons, anche il conte Giovanni è in chiesa per la cerimonia. Si annoia, è evidente, e chiede a un chierico di spiegargli un po’ la faccenda. Il religioso racconta la passione del Signore, la sua risurrezione, e il conte «disse come in un sibilo: “Ma questa è una favola, è una sciocchezza!” L’altro rispose: “Se tu ritieni tutto ciò vanità e favola, perché vieni qui alla veglia?” Egli rispose: “Provo piacere a vedere le belle donne che stanno qui a vegliare”».

Dopo i fattacci di Laon, i chierici della cattedrale «per raccogliere denaro, cominciarono a portare in giro le reliquie, com’è d’uso», un vero e proprio tour che si spinse anche in Inghilterra, a Winchester, a Essex. Una sera «un inglese fermo dinanzi alla chiesa disse a un amico: “Andiamo a bere”. E l’altro: “Ma non ho denaro”». Nessun problema, ci sono le offerte per le reliquie di quel santo francese. «Detto questo entrò in chiesa, si avvicinò al concistoro dove si trovavano le reliquie e fingendo di volerle baciare con venerazione, appoggiata la bocca, aspirò con le labbra aperte i denari che erano stati offerti». Bravo, complimenti, bevi, bevi: tre ore dopo «si impiccò ad un albero dove, con una morte orrenda, pagò il castigo della bocca sacrilega».

Laon città funestata, peraltro, dai delitti. «Un prete, mentre in casa sua sedeva dinanzi al fuoco, fu colpito alle spalle da un ragazzo col quale viveva in modo eccessivamente familiare e morì.» Il giovane prova a occultare il cadavere. Dov’è andato il don? Niente, è fuori città per affari. Ma il fetore, oltre a essere insopportabile, rischia di tradirlo, sicché il ragazzo «riunì i beni del padrone, depose il suo corpo nel caminetto con il volto poggiato sulle ceneri, gli appoggiò sopra, inclinato, un arnese chiamato essiccatore per fare credere che cadendo lo avesse colpito [et instrumentum desuper pendens, quod siccatorias vocant, super eum dejecit], poi fuggì con il denaro». La scena del crimine è così interessante per Guiberto, che si dimentica persino di citare il castigo del colpevole.

Potrei andare avanti tutta la sera…, come d’altra parte lo stesso Guiberto: «Dovunque si raccontano un’infinità di casi di diavoli che si fanno amare dalle donne e riescono a dormire nei loro letti e se la decenza me lo permettesse ne potrei raccontare molti».

Sogni e memorie di un abate medioevale. La «Mia vita» di Guiberto di Nogent, a cura di F. Cardini e N. Truci Cappelletti, Europìa 1986 (il testo latino può essere consultato qui).

 

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