Dieci, venti, trenta anni

«Quando una persona ripete per dieci, venti, trenta anni questi gesti, quando prega per tre volte al giorno, quando pensa con Dio e davanti a Dio per ore – e questo in particolari momenti della giornata… – finisce per scoprire il significato profondo di tutto questo.» È soltanto uno dei molti punti interessanti della conversazione con Enzo Bianchi sul monachesimo, ottimamente condotta da Gabriella Caramore, autrice e voce di Uomini e profeti, e poi pubblicata in volume con il titolo di La vita altrimenti. Interessante, oggi, per me, perché evidenzia al contempo vicinanze e distanze rispetto all’esperienza monastica.

Vicinanza anzitutto intorno a un meccanismo che vede nella regolarità (vorrei dire proprio ripetizione) la strada della conoscenza, dal ripetere una poesia o una lezione per apprenderle, al ripetere una strada, un gesto, una frase per scoprirne il valore teorico e pratico. Andando un po’ liberamente per associazioni, è soltanto alla centesima volta che si ripete la ricetta di un risotto che si può dire di saper fare un risotto, e io questo vedo, anche, nel monachesimo: ripetere per conoscere. Per mettersi alla prova, direbbe forse un monaco, aggiungendo, come fa il priore di Bose, che esiste anche un perché lo si fa, uno scopo che trascende, là dove la semplice ripetizione produttiva è attributo delle macchine.

Qui si comincia a intravedere la distanza. Anche chi, come dice Bianchi, «non sperimenta la grazia della fede», non può essere sordo in quanto essere umano alla domanda dell’interiorità. Orbene, io credo sempre meno a questa domanda, o meglio credo che le risposte che vi si posso dare non siano rilevanti al di fuori di me, perché sono combinazioni di elementi dati, sono storie che mi posso raccontare per dare senso e spessore ad atomi e scariche elettriche, un mero, ancorché complesso accidente.

È vero, non posso non ascoltare chi – persone concrete, nomi propri – si ribellerebbe a questa affermazione, coloro per i quali tale mero accidente determina delle differenze. Che io ci sia o no per costoro è diverso, ma prima di «io», in realtà c’è «qualcun altro», come ampiamente offerto dalla specie, e questa per me è la prova che in questo discorso «io» non conta, conta soltanto «altro».

Qui c’è sicuramente una contraddizione nel mio cosiddetto pensiero, poiché anch’io mi ribellerei se coloro i quali, in modi diversi, determinano una differenza nella mia vita affermassero di essere un mero accidente. Non so risolverla, o meglio, non voglio risolverla con uno di quei «giochi di parole» di cui sono terribilmente stanco e cui pure non so rinunciare, me la tengo, e finita lì, con una sola avvertenza. La partita si gioca qui, dove non vedo tracce di trascendenza, ma semmai di qualcosa che assomiglia alla responsabilità – verso persone concrete, nomi propri.

Ed ecco che mi pare di avvicinarmi di nuovo. Perché la comunità monastica, come idealmente tratteggiata dalla Regola, è anche luogo di massima esaltazione di questa responsabilità, dove si impara a essere… l’altro di cui l’altro ha bisogno per essere l’altro (eccolo lì…), in una circolarità di certo non esclusiva del monastero, ma che il monastero radicalizza e pone al centro della sua vita quotidiana: «Quando si è gli uni accanto agli altri, nella vita comune, si assiste alla manifestazione dei propri limiti, dei propri difetti: l’altro è colui che ci corregge e che ci vede nella nostra verità. Da soli, non sappiamo di cosa siamo veramente fatti; ma in mezzo agli altri siamo obbligati a riconoscerlo…»

(Enzo Bianchi, La vita altrimenti. Pensieri sul monachesimo, a cura di G. Caramore, Morcelliana 2006.)

2 commenti

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2 risposte a “Dieci, venti, trenta anni

  1. Molto interessante la riflessione sulla ripetizione. I gesti che abbiamo ripetuto a lungo ci determinano, creano percorsi del corpo e della mente che ci sostengono come strutture. Anche da qui, ma non solo da qui, deriva l’importanza della liturgia. Della preghiera sette volte durante il giorno e una volta nel corso della notte. In questo senso, spero senza troppo intento polemico, devo dire che la comunità di Bianchi si discosta molto dal monachesimo tradizionale, sottraendosi almeno parzialmente allo specifico della ripetizione liturgica, che è proprio il culmine e la fonte da cui scaturisce la spiritualità monastica. Per il secondo ordine di considerazioni, che ci sia o meno una prospettiva non meramente ad intra, difficile comunicare questa certezza ad altri, però bisogna almeno rilevare che la nascita del monachesimo non è in relazione alla possibilità di una vita spirituale, di una qualche forma di saggezza o illuminazione, e neppure a tentativi di costruzioni di socialità e di generica ‘vita buona’, nonostante l’elemento pacomiano. L’origine profonda del monachesimo è il radicale ‘quaerere Deum’, tutto il resto, se c’è, non è che ricaduta secondaria. Le lettura del momachesimo che prescindano da questo dato, rischiano di essere fortemente parziali, quando non fuorvianti.

    • MrPotts

      Grazie dell’intervento.
      Hai indubbiamente ragione quando richiami l’origine profonda del monachesimo: Benedetto è chiarissimo al riguardo e non si può prescindere. Dalla mia prospettiva, che conosci, ho trovato significativo che una figura come il priore di Bose, che pure non tralascia di indicare l’essenza del «cercare Dio», ritorni così frequentemente sul tema della comunione (e infatti si rifà più volte alla santa koinonìa di Pacomio): «Ci sono uomini e donne che sentono come loro verità la vita non coniugata e la comunità, il mettersi insieme per vivere un’altra forma di vita». Tanto da indicare al primo posto tra le «urgenze che il monachesimo potrebbe affrontare in favore dell’umanità e della società» proprio la communitas. Tra l’altro, anche nella raccolta di omelie monastiche di Bianchi che sto leggendo adesso, Il mantello di Elia, vedo che diversi capitoli sono dedicati alla vita di comunione. Non posso certo esprimere un giudizio sulla posizione del priore all’interno del monachesimo contemporaneo, dirò soltanto che quel richiamo, in un modo o nell’altro, parla anche a me.
      Grazie ancora e salute.

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