(la prima parte è qui)
C’è poi un livello più denso di riflessioni nel quale l’autrice prova a definire i tratti più specifici dell’essere monache, riflessioni che muovono dal concetto di «unicità imperfetta» dell’individuo (la formula è mia). Il monastero è «una comunità che mette a tema l’imperfezione» ed è al tempo stesso un progetto fondato sulla tesi che «non ci sono persone umane incompatibili». È il luogo dove ci si apre in piena gratuità all’altro (e attraverso di esso all’Altro). L’altro è il tu senza il quale non c’è io: «Se qualcuno non mi chiama io non esisto», e nel monastero l’altro per così dire si radicalizza. Anzitutto perché non è scelto (cosa che in verità avviene anche altrove) e in secondo luogo perché ci tiene costantemente sotto osservazione – pure questo accade anche in altri ambiti, ma nel chiostro non ci sono maschere: «Noi monache viviamo sempre insieme sotto gli occhi le une delle altre e sempre nello stesso luogo, non abbiamo ambiti diversi. In un certo senso siamo costrette ad avere un unico volto. La stabilità monastica è una condizione di autenticità perché ti impedisce di bluffare, di nasconderti». Questa scelta, anzi questa «chiamata», esplora in profondità la dimensione dell’unicità («La sfida monastica si basa sulla convinzione che il cuore umano è uno e che rimane se stesso in qualunque situazione»), che l’autrice si spinge a definire «la dimensione monastica dell’esistenza umana», quella per la quale la verità di un individuo, di una «persona unificata», risiede «nel corrispondere allo stesso nome, il proprio, sempre».
Tale «vocazione» si fonda sul concetto, appunto, di unicità di ogni esistenza, un terreno sul quale non posso seguire l’autrice: l’unicità «della mia corporeità, del mio essere umano, del mio patrimonio cromosomico» è puramente accidentale, la definirei un fatto combinatorio, e non penso che la mia esistenza sia un novum che cambia l’universo. «Se non pensi questo», avverte la badessa, «allora tiri a campare»: bene, vorrà dire che tiro a campare.
Posso essere affascinato dall’immagine di «una umanità riconciliata attraverso la lotta intorno alle passioni», anche più che affascinato, ma la storia della specie cui appartengo mi suggerisce diversamente. E posso senz’altro seguire l’autrice sul fatto che non mi chiamo da solo, ma non vedo come la relazione fondi la fede, o meglio, e vorrei esprimermi bene, non vedo qui la rilevanza della fede. «Io credo sia praticamente impossibile che un uomo onesto e senza risentimenti sia ateo», dice la badessa, che non concepisce come l’alterità non abbia un nome, anzi un Nome, che per lei è Gesù. Incassati la disonestà e i risentimenti, io di nomi potrei farne una lista abbastanza lunga, e quelli mi bastano, nel senso che sono più che sufficienti per tentare di orientare le mie azioni.
E mi sia concessa una punta di irritazione di fronte all’insinuazione: tu dici di non credere, ma in realtà non può essere così. Io credo alle persone che affermano di credere, non dico loro che, in realtà, inseguono l’ippogrifo, mi farebbe piacere essere trattato alla stessa maniera.
(2-fine)
Madre Ignazia Agelini, Mentre vi guardo. La badessa del monastero di Viboldone racconta, a cura di Pierfilippo Pozzi, Einaudi 2013.
Buongiorno, ho letto con molto interesse la recensione del libro, del quale sono il curatore: i lunghi dialoghi con madre Ignazia hanno richiesto un lavoro di strutturazione del testo e di ‘scrittura dialogica’ molto delicato, poiché il libro voleva risultare comprensibile ad un pubblico più ampio di quello specialistico al quale si rivolgono normalmente i testi di Ignazia Angelini. E’ questa una mia responsabilità, perché avevo ed ho il desiderio di far circolare considerazione simili tra più persone possibili, accettando il rischio di dover limitare la complessità delle argomentazioni. Mi hanno colpito, in particolare, due critiche che rivelano certamente una nostra responsabilità non essendo riusciti, evidentemente, a esprimere compiutamente il discorso. Mi riferisco alla questione dell’unicità dell’esistenza umana o, meglio, della persona, e al legame, per lei incomprensibile, tra ‘relazione’ e ‘fede’. Le scrivo la mia personale idea, naturalmente, non di madre Ignazia: cercherò di rispondere anche sul piano razionale, poiché mi sembra che lei stesso muova in questo senso la sua critica, anche se sono convinto che l’incontro tra ricerca spirituale e razionalità non sia una strada facile.
Per quanto riguarda l’unicità della persona, credo che la convinzione si possa fondare non tanto sulla causa (se sia cioè causata da un gioco combinatorio o meno la sua unicità) ma sul principio di identità: se esistessero due persone identiche (o congruenti, insomma) sarebbero la stessa persona. Sul piano esistenziale, invece, credo sia una constatazione di tutti noi il fatto di non aver mai incontrato due persone identiche. Simili, ma non identiche. Che ogni persona sia poi un ‘novum’ che modifica l’universo credo che si possa spiegare sia per il fatto di essere ‘unico’ sia perché in qualsiasi sistema, non solo ‘complesso’, ogni elemento modifica inevitabilmente il sistema stesso e, per di più, in maniera imprevedibile. E in un sistema complesso non c’è corrispondenza biunivoca tra causa ed effetto. Da questo punto di vista, anche un granello di arenaria appena staccatosi dalla roccia determina la stessa ‘ristrutturazione’, magari lievissima, dell’intero universo.
Il legame tra ‘relazione’ e ‘fede’, invece, ha molto meno a che fare con la logica e la scienza: questa ci dice che la realtà è una struttura relazionale (per la verità ce lo dicono anche i testi religiosi: la Creazione è la produzione di distinzioni, e quindi di relazioni), mentre la fede – la fiducia, l’affidamento – è una scelta intorno alla qualità della relazione. Mi vengono in mente Kant e Leopardi: per il primo l’umanità deve scegliere se allungare il braccio verso il proprio vicino per aiutarlo a stare a galla o per spingerlo a fondo affinché lasci più spazio; Leopardi, ne “La ginestra”, fa una considerazione analoga. In entrambi i casi si considera che un’umanità riconciliata non sia l’esito di un processo naturale (la storia della specie) ma una libera scelta culturale.
Vorrei fare molte altre considerazioni che le sue parole mi hanno suscitato, ma mi sembra di aver fin troppo occupato il suo spazio! Recentemente ho ascoltato Enzo Bianchi proprio sulla fede, sentimento distinto in ‘provare fede’ e ‘avere fede in’: se interessa, prometto di provare a ottenere il suo discorso e pubblicarlo sul suo blog: mi aveva piuttosto convinto…
Grazie per la pazienza!
Gentile Pierfilippo Pozzi, anzitutto la ringrazio molto per la corposa riflessione che ha voluto dedicare a quanto ho scritto. Posso ben immaginare il lavoro di curatela da lei svolto per ricavare il volume che tutti possiamo leggere dalle conversazioni che ha avuto con m. Ignazia. Mi dedicherò al suo commento con la dovuta attenzione.
Per intanto, grazie ancora.
Gentile Pierfilippo Pozzi, provo a rispondere alle sue osservazioni.
Per quanto riguarda il primo punto, quello dell’unicità, o più esattamente quello dell’identità, probabilmente senza disporre di adeguati mezzi filosofici, ciò che provo a pensare è che la consatatazione di non aver mai incontrato due persone identiche non sia sufficiente a dimostrare l’unicità, che si tratti dell’osservazione di un fenomeno, sinora non smentita ma non per questo fondante. L’identità sarebbe il limite della capacità di calcolo delle variabili che concorrono a definire un individuo. D’altra parte penso anche che, nell’assenza di previsioni circa il superamento di questo limite (o nell’impossibilità di superarlo), l’identità possa essere un’ottima ipotesi, sulla quale basare un’enorme quantità di scelte. Sono inoltre consapevole che il mio cosiddetto pensiero sia condizionato da quella che chiamerei una specie di ribellione, risibile e scomposta, all’identità, e a quello che a me sembra un tentativo un po’ disperato di difenderla dalle cose (può essere peraltro che si tratti di cattive rimasticature di letture).
Sul secondo aspetto da lei sollevato, credo che il punto per me sia la necessità, avvertita o no, di spostare il senso del gesto di quel braccio su un piano trascendente. Non ho motivo, né argomento, per negare l’idea della libera scelta culturale, anzi; quello che non sento, nella pratica quotidiana, è il bisogno di cercare un Altro, rispetto agli altri che già incontro e che mi definiscono, e che mi pongono di fronte a scelte, ecc.
Si potrebbe anche dire che la confusione delle mie considerazioni sia un altro segno della peculiarità di ciascun individuo, lo concedo, soprattutto perché confido di non avere alcuna velleità di dimostrazione.
Quanto al discorso di Enzo Bianchi, mi piacerebbe molto poterlo leggere, ma non mi sognerei mai che possa essere riportato qui (se ho capito bene). Sa se verrà pubblicato in qualche forma?
La ringrazio ancora molto per l’attenzione.
Gentile Mortimer, grazie per il suo commento. Credo che però convenga che io ora mi limiti per non risultare invadente. Mi sembra, comunque, che il discorso tocchi la questione del limite e del fondamento, mica bruscolini… Da ragazzo rimasi piuttosto inquieto quando lessi di quell’immagine dell’uomo evocata da Fichte: “L’uomo si regge in piedi tenendosi per i propri capelli”: mi sembra che lei, come tutti i cercatori, si trovi su questa soglia misteriosa. La mia personale idea è che il mistero debba rimanere tale per essere prolifico. Se lo trasformiamo in un segreto, perde ogni ricchezza… Un carissimo saluto!
Pierfilippo.