Monache poetesse, poetesse monache (pt. 1)

Senza premeditazione mi sono infilato in una serie di letture sul monachesimo femminile, con un’attrazione forse più spinta per il Seicento, o più esattamente per l’epoca post Concilio di Trento, con tutti i risvolti legati, da un lato alla codificazione della clausura stretta, dall’altro al controllo pressante esercitato sugli istituti femminili da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Non c’è mai stata sistematicità nelle mie letture monastiche, tanto che talvolta mi chiedo se non sia il caso di mettere un po’ di ordine, salvo poi ricadere subito nel meccanismo che ben conosco di seguire in maniera erratica suggerimenti il più delle volte prodotti da testo a testo. Il punto di partenza di questo filone di letture è stato sicuramente la superba antologia delle Scrittrici mistiche italiane. Mi rendo conto che del monastero femminile, di quello cinquecentesco o seicentesco, ho un’immagine non priva di molti strati di pregiudizi: un universo chiuso, per così dire, al quadrato rispetto a quello maschile. E se guardo con estrema cautela al mio interesse, riconoscendone i tratti fantastici, mi imbatto poi in studi che già a partire dal titolo non fanno che alimentarlo in una direzione probabilmente scorretta.

Il bel saggio in questione è Arcipelago sommerso. Le rime monacali tra obbedienza e trasgressione, di Elisabetta Graziosi, che per prima mette in guardia su un titolo «forse troppo metaforico, troppo ampio, troppo allusivo». D’altra parte, «anche se è vero che i monasteri femminili furono centri di produzione, diffusione, conservazione della cultura, delle molte rime monacali che vi si produssero poche si sono conservate, altre emergono solo indirettamente per cenni e allusioni, mentre le più sono introvabili o forse distrutte». Qui il «silenziatore» della storia ha agito con particolare efficacia, e la stessa tradizione erudita settecentesca, ricorda l’autrice, si è in gran parte arresa: «Non si può far storia di quello che non si trova». Pure, qualcosa è rimasto, anche se «la ricerca sulle rime delle monache non premia i ricercatori impazienti, ma a volte neppure quelli pazientissimi».

Lo studio di Graziosi procede con ordine. Anzitutto: chi erano queste monache poetesse? Non si sa. In molti casi ci si trova di fronte a testi anonimi, una «autorialità debole» che sfocia in «un fenomeno imponente di postumismo»: solo dopo la morte delle autrici le loro rime vengono raccolte, perché soltanto allora si può aggirare «il potenziale trasgressivo contrario all’umiltà» (chi sarai mai tu, povera monaca, per rivendicare un’opera poetica?) e spostarsi sul terreno più tranquillo dell’edificazione e dell’uso devozionale: da peccatrice d’orgoglio a esempio di virtù. È il caso, davvero rilevante, delle Devotissime composizioni di una clarissa del convento bolognese del Corpus Domini, «uno dei best seller monacali più straordinari», forse il primo libro di poesia totalmente femminile, di cui non si conosce la prima edizione (1498?) ma le numerose successive. (Di un’edizione bolognese del 1558 è riportato il seguente titolo esteso: Devotissime composizioni ritmiche, et parlamenti a Jesu Christo nostro Redentore, de una Suora del Monasterio del Corpo di Cristo di Bologna… quali meditando componeva mentre era occupata nelli manuali esercizj, non avendo lettere ne scientia alcuna, ec.) Sono testi elementari, da recitare ad alta voce, magari durante il lavoro, semplici e ripetitivi, perfetti per essere alterati, variati, imitati, dimenticati e ricomposti, tanto non sono di nessuno, anzi di tutte, «sono testi aperti, di riuso collettivo senza monopolio… l’opposto dei monumenti letterari che restano nelle biblioteche».

E «chi era questa monaca? Per ora non si è trovato modo di appurarlo».

(1-continua)

Elisabetta Graziosi, Arcipelago sommerso. Le rime monacali tra obbedienza e trasgressione, in I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, a cura di G. Pomata e G. Zarri, Edizioni di storia e letteratura 2005, pp. 145-73.

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