Dopo che l’avevo ordinato online, l’altro giorno mi è arrivato questo libro: Dove va la storiografia monastica in Europa? Temi e metodi di ricerca per lo studio della vita monastica e regolare in età medievale alle soglie del terzo millennio, Atti del Convegno internazionale, Brescia- Rodengo, 23-25 marzo 2000, a cura di Giancarlo Andenna (Vita & Pensiero). L’ho scartato come una tavoletta di cioccolato e ho iniziato a leggere l’indice con allegra anticipazione: si va da un classico «Monachesimo e monarchia nel Mezzogiorno normanno-svevo» (H. Houben) al ficcante «Cronache minime di storiografia camaldolese e vallombrosana» (N. D’Acuto); dal promettente «La storiografia fruttuariense» (A. Lucioni) all’insolito «Views from Afar: North American Perspectives on Medieval Monasticism» (B.H. Rosenwein) – cinquecentocinquanta pagine di serietà.
Aspetta un momento… Perché sono giunto qui? È una lettura specialistica, da studiosi, non da «individuo generico interessato all’argomento». Che cosa mi aspetto?
In piccola parte mi aspetto una raccolta di saggi veramente concentrati sul tema, cioè una forma di scrittura in fondo indipendente dal soggetto, testi che parlano di qualcosa e non di chi li ha scritti e di qualcosa (non che non ne sia ghiotto, anche di autoscritture, intendo).
Più in generale, mi sono detto, voglio capire fino a che punto l’idea che ho del monachesimo sia coerente con la cosa e non semplicemente una fantasia. E cioè che, parallelamente alla vicenda di fede (questo «parallelamente» è di certo un punto critico), il monachesimo abbia rappresentato e rappresenti una forma sociale alternativa, seppur all’interno di forme sociali più ampie, e in qualche modo da esse reso possibile. Una forma costruita, perfezionata e abbracciata (e pure corrottasi, certo) anche proprio in quanto tale, indipendentemente dalla vicenda di fede. Una forma di vita (farina del sacco di Agamben) che in un’ipotetica disgregazione prossima verrà riconsiderata come modello, almeno sulla carta, di comunità paritaria, non finalizzata alla «crescita economica» e capace di perseguire la serenità dei suoi membri, per quanto in cambio di taluni sacrifici. Una forma di contratto sociale? (La richiesta di ammissione stabilita da Benedetto doveva essere messa per iscritto, firmata e depositata sull’altare.)
Mi pare poi di sommo interesse che la chiave, il pilastro su cui ha poggiato e poggia l’istituto sia la rinuncia all’individualità, con tutto il suo corredo. Una pratica molto concreta, per lo svolgimento quotidiano delle attività. E non importa che la vita in monastero sia anche attesa, perché comunque è vita, anni, successione di giorni. Toh, l’esercito, la caserma… no, tutt’altro: niente gerarchia e pace, interiore e no, come primo obiettivo. Una forma tenacemente antimoderna, ma anche una risposta esistenziale quasi pre-storica, che mi fa molto riflettere.
Con la certezza che queste considerazioni confuse le avrà di sicuro già svolte meglio qualcun altro, ho ripreso a scorrere l’indice del volumone: «Le Congregazioni monastiche: le Damianite» – uhm, sounds good!
una domanda: sai meglio di me che il monachesimo orientale è ben diverso da quello occidentale. Secondo le tue conoscenze, cosa può significare in termini di forma sociale questa differenza?
Ne so davvero troppo poco. Direi soltanto che mi pare che il monachesimo orientale sia sempre stato tendenzialmente più aperto e “integrato” alla realtà sociale circostante. Perlomeno aperto nel senso dello scambio, se penso ad esempio al ruolo di guida spirituale largamente assunto nei confronti dei laici, intesi come individui e come comunità. Ammesso che quest’idea abbia un minimo di fondamento, la prospettiva dell’alternativa non si darebbe.
ok, quindi insomma il monachesimo occidentale al più si può far risalire agli esempi di quello che adesso è l’Africa settentrionale 🙂
Evviva i pensierini di MrPotts! Certo alle volte mi fai un po´ invidia per questo interesse spasmodico per il nostro patrimonio spirituale. Dissento un po´ sul concetto: “parallelamente alla vicenda di fede (questo «parallelamente» è di certo un punto critico), il monachesimo abbia rappresentato e rappresenti una forma sociale alternativa, seppur all’interno di forme sociali più ampie, e in qualche modo da esse reso possibile” Io la ritengo una forma di vita quasi “impossibile” da applicare senza la fede, parlo naturalmente per esperienza personale… Provare per “credere”.
Ciao caro Cesario!
Meno male che riporti l’ordine. Peraltro leggevo proprio ieri una cosa sul rischio di equivocare lo specifico monastico. Ne scriverò senz’altro. Però vorrei anche approfondire con qualche riferimento a esperienze tardoantiche che mi hanno fornito lo spunto per il “pensierino”.
Caro MrPotts,
attendo speranzoso (Esseni?) 😉
Proprio loro o, più esattamente, la comunità descritta da Filone alessandrino in “La vita contemplativa” che, secondo alcuni, potrebbe, ecc.