Nella benemerita «Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal secolo XIII al XIX» (cui ho già accennato) ho trovato il Tractato del diavolo co’ monaci, una «istoria popolare in ottava rima» di Bernardo Giambullari (1450-1529). Come potevo esimermi dal leggerlo? Dice l’editore, Gaetano Romagnoli, nel presentarlo nel 1866, che è cosa «puerile abbastanza», ma «graziosa»; «rappresenta al vivo le superstizioni de’ nostri avoli» ed è inoltre in piena sintonia con la diffusione dei «diavoli» che gli pare di riscontrare intorno a sé, «che proprio si conosce apertamente essere il diavolo la letizia, la gloria e il conforto dell’età moderna». Diavoli nei drammi e nei balli, nelle canzoni e nei brindisi (l’Inno a Satana del Carducci è pubblicato nel 1865), nei gioielli e nei modi di dire («e diavoloni chiamiamo insino a certi confetti che valgono mirabilmente a temperare la puzza ch’esce di bocca a qualche sciaurato»)…
La istoria, propriamente intitolata Una resia che un demonio volle mettere in un monasterio di monaci, narra di come un giorno un diavolo, per introdursi in «un divoto e santo monastero» e seminarvi la malizia, fosse entrato nell’asino di un converso. Giunto alla porta della badia, l’animale si blocca, si mette a strepitare e non c’è verso di smuoverlo. I monaci accorrono e le provano tutte: niente. Finché il converso, spazientito, sbotta: «Và, ‘n nome del diavolo». Oh, finalmente!
«La notte poi, suonato mattutino, / un monaco si andava per quei chiostri» e improvvisamente gli sembra di udire il pianto di un bambino. Viene dalla stalla. È proprio un neonato! Nella mangiatoia, nudo, con questo freddo! Il monaco avvisa l’abate, che corre alla stalla e si convince che il piccolo non possa che essere figlio del converso:
Che questa cosa non s’abbia a sapere, / Che ci sarebbe troppa gran vergogna; / Ed ucciderlo già non par dovere. / Ma ben prometto di grattar la rogna / al padre suo, s’ i’ lo posso vedere: / di fuor vogliol mandar secretamente, / di poi vuo’ ricercar tal conveniente.
Così l’abate affida il bambino a una pia donna («una sua spirituale antica»), che a sua volta lo affida a una sua amica perché lo cresca, senza dir nulla ad alcuno. L’abate informa i confratelli riuniti in capitolo e, tra lo sconcerto generale, promette che «se vive, sarà cosa conveniente / che, allevato, ce lo facciam poi rendere» e diventerà uno di loro.
Passano cinque anni. Il bambino è bello, educato, «benigno, astuto e tutto sapiente», e, come promesso, l’abate lo riporta al monastero. I monaci si sdilinquiscono. Passano altri dieci anni e il giovane è così nobile, prudente, dotto e amato che, quando il vecchio abate muore, i confratelli non esitano un istante ed eleggono proprio lui come nuovo abate. Ancora altri cinque anni, ed ecco che il maligno dà il via al suo piano.
Fratelli, «noi siamo in grande errore!» dice un giorno ai suoi monaci. Ce ne stiamo qui, da soli, quando il Signore ci ha detto: andate, crescete e moltiplicatevi. Dobbiamo rimediare! E aggiunge:
Noi abbiam qua, trenta miglia discosto, / un monaster di buone monacelle / che dell’ordine nostro è sotto posto. / Voglio che due di voi vadino a quelle / e narrino quello che è presupposto, / ciò dichiarando con ragioni belle, / ch’esse debbono uscir di questo errore / celatamente, e servire il Signore.
Si farà tutto di nascosto, e i figli che nasceranno, se femmine, resteranno con le suore, se maschi, saranno monaci. I confratelli approvano, «ed hanno pena già dello aspettare, / ed ognun pensa: qual suora fia quella / che tocchi a me? oppur: la sarà bella?» Sicché due monaci, debitamente istruiti dall’abate, il giorno dopo partono, si presentano alla porta del monastero femminile e chiedono di parlare con la badessa, e «Suora Umilia, di niente sinistra / venne alla grata senza far dimora». La badessa li accoglie fraternamente, li fa sistemare in una cella separata e ordina che siano onorati «col lesso e coll’arrosto». La mattina dopo, in chiesa, i due monaci riferiscono alle suore le parole dell’abate. L’effetto è immediato, e la badessa si rivolge alla comunità:
Se ben comprendo e gustando considero, / divote mie spiritual figliole, / eramo in error grande! e già desidero / d’uscirne presto e con brievi parole. / Per gran dolore tutta si m’assidero / che del perduto tempo assai mi duole: / e priego voi, e parmi convenevole, / che ognuna sia a tal cosa arrendevole.
Dopodiché invita i due monaci a tornare dal loro abate e riferirgli «ch’al suo voler noi siamo tutte parate».
Perfetto! I due s’incamminano, ma la notte li sorprende mentre sono ancora nella foresta. Per evitare inconvenienti con bestie selvatiche, decidono di sistemarsi su un albero, e così sono testimoni di una scena spaventosa: una riunione di diavoli! E in mezzo alla turba infernale chi s’avanza a un tratto? Proprio l’abate, che viene interrogato dal capo dei demoni: è tanto che non ti vediamo, dove sei finito? E perché indossi «monacil panni»? Mi vedete così abbigliato, risponde l’abate, perché «voglio menar all’inferno una badia… I’ sono stato già ventidu’ anni / a tender reti, trappole e lacciuoli / sott’ombra di ben far», e racconta tutto ai suoi maligni fratelli.
Il mattino dopo i due monaci, terrorizzati, corrono al monastero e riportano tutto a un anziano confratello, il quale ci pensa su e organizza la riscossa. Quattro confratelli si appostano all’uscita della chiesa e saltano addosso all’abate: «Questo è il diavol maledetto!» Lo caricano di legnate, «lui si raccolse in terra come un nicchio / e sparì via; e quivi ebbe lasciato / un asin puzzolente in una cappa: / sicché vedete se c’inganna e frappa!»
I monaci, veggendo quello inganno, / divotamente Gesù ringraziorno / e con amaritudine ed affanno / a maggior penitenza ritornorno. / Per l’avvenire in tal timore stanno / che alla lor fine tutti si salvorno. / Così le suore di quel monasterio / furno avvisate di tutto il misterio.
(Il testo è disponibile online.)